45. Io, vagabondo di me stessa

Genere: Commedia trascendentale

“Va bene, adesso tira indietro e poi ancora avanti, passa in terza e schiaccia, leggermente l’acceleratore”. Seguo le sue parole come fossero oro colato, sento le mani che sudano dall’eccitazione, la fronte corrugata, la lingua schiacciata tra i denti.

Indietro.

Avanti.

Terza.

E via.

Il motore si scalda, lo sento agitarsi, il suo rimbombo somiglia al grido del tenore nell’assolo della sua voce. Il sole mi illumina i capelli rossi e il volto pallido. Lui sorride, la luce sembra impigliarsi nelle sue ciglia dorate, mentre le fossette si fanno marcate. Mi rilasso solo quando sento la sua risata forte e cristallina percorrermi la schiena, come la più dolce delle carezze. Mi concedo un sorriso, prima di fermare il veicolo. Scendo e lui fa lo stesso, si avvicina e mi abbraccia. È un abbraccio di flanella e dopo barba.

È l’unico posto in cui mi sento al sicuro.

Quando l’auto riparte, lui si volta verso di me, ponendomi un quesito silenzioso con il singolo movimento delle sopracciglia. Alzo le spalle in un gesto vago, scacciando il problema via con la mano: “ci penseremo quando verrà il tempo”, sembro dirgli, “ci penseremo dopo a dove andare”.

Ma “dopo” non è un lusso che posso pensare di permettermi per sempre.

 

Siamo partiti poco dopo la laurea, giusto il tempo per dirlo alla sua famiglia e lasciare una lettera alla mia, da allora, lui, altro non fa che chiedermi dove andare, quale sia la nostra destinazione. E io altro non faccio che aggirare la domanda: sono partita per trovare casa, il luogo a cui senti di appartenere, a cui sei convinto di dover tornare. Io non ho lasciato niente con la mia partenza. Lui, invece, ha lasciato tutto: aveva tutto e ora ha solo me, io ho sempre avuto solo lui, ero solo l’ennesima schiava di questa società che prova piacere nel lacerarsi i polsi pur di fuggire, che si strappa le vesti della tolleranza, urlando e mordendo anche verso il futuro.

Siamo partiti alla ricerca di una casa, di un luogo che ci richiami una volta partiti, ma non lo abbiamo ancora trovato. Ho maturato l’idea di essere un vagabondo, un senza-terra: vivo nell’umile condizione di chi non apparterà mai a nulla perché ha ceduto la sua vita alle note di una canzone, ad una bionda di passaggio, all’ennesimo wisky invecchiato. Vivo sul futile filo di una vita spesa negli eccessi, e ne pago le conseguenze. Anche lui le paga, lui che vede la vita come un amore platonico con il mondo intero.

 

Raggiungiamo l’ennesima cittadina sperduta e ci fermiamo ad un ostello.

Nuova città, nuova dimora, ennesimo rifiuto.

Lo sento nello stomaco che sarà solo un altro intossicante rigetto, ma lui è così eccitato all’idea di fermarsi che scarto l’ipotesi di tornare sul veicolo.

L’uomo al bancone ha la barba e i capelli scuri, lo sguardo da lupo. Non mi avvicino di molto: certi esseri umani mi danno il prurito.

La camera in cui alloggiamo ha la grandezza fisica di una lattina, due sono i letti a piazza singola: “maledetti puritani di provincia”, mi ritrovo a pensare alzando gli occhi al cielo. Lui mi sorride: non da peso al mio malumore, anzi, lasciandosi cadere  a corpo morto sul materasso, si addormenta in meno di cinque minuti.

Mi rifiuto di passare il tempo a sentirlo russare, per quando ami vedere il suo volto rilassarsi dalle intemperie della vita e concedersi una pausa, appendendo il mantello dell’eroe sempre sereno per concedersi al mondo privato della sua psiche. A volte sono così egocentrica da pensare che ci sia anche io nei suoi sogni, quella sarebbe la mia vera casa, da lì non me ne andrei mai.

Gli lascio un biglietto ed esco in punta di piedi.

La città è grande quanto il palmo della mia mano e la movida cittadina sembra risiedere in un piccolo bar. Lo supero senza degnarlo di uno sguardo, ma sento già l’eco dei primi pettegolezzi.

Mi dirigo verso il parco e mi siedo su una panchina avvolta nel silenzio. Volgo lo sguardo al cielo: le nuvole sembrano rincorrersi, accavallarsi, unirsi, e lasciarsi andare per non incontrarsi mai più. Stringo gli occhi e mi accorgo di una strana puzza, sento come se l’odore venisse dalle stesse persone, è un lezzo insopportabile, le vedo sudare falsità da tutti pori, sento la malvagità colpirmi in faccia tanto forte da farmi cadere. A bocconi guardo i vermi che si aggrovigliano in una danza sensuale con madre natura: ho il voltastomaco, sento le vertigini e il respiro si incastra nella faringe creando un ingorgo di ossigeno, che mi lascia ad annaspare in cerca di aiuto.  Poi tutto svanisce con la stessa velocità con cui è arrivato, mi giro, allora, per allontanarmi, quando vedo una figura sdraiata in modo innaturale sul prato, mi avvicino alla figura senza troppi complimenti, quasi trafelata.

Davanti a me c’è un corpo.

Uomo probabilmente.

Il volto sfigurato.

I vestiti strappati.

E sangue.

Sangue dappertutto.

E io svengo.

Quando rinvengo il mio ragazzo mi tiene stretta in una morsa che trasuda l’agonia in quei momenti di incoscienza: lo sento dalla forza con cui il suo cuore batte contro la cassa toracica. Ma ritornare al presente è un’azione complessa: sentire il sole sulla pelle e le grida ovattate davanti a me sembra una cosa ingiusta, sembra sbagliato, e la prima cosa che mi sento di fare è chiudere nuovamente gli occhi.

Poi mi alzo e vomito.

 

Suicidio. Questa la sentenza del giudice cittadino. L’uomo si è suicidato. Con un’arma da fuoco. Un revolver, per la precisione.

Sono tra il pubblico, mi giro a guardare i volti dei paesani: vedo solo soddisfazione nei loro occhi, non leggo lo struggente dolore di chi soffre.

Poi la luce si affievolisce, sento le palpebre chiudersi in un raptus di improvvisa stanchezza. La testa si fa pensante, quando una voce roca, di brutto gusto, mi solletica più la mente che l’orecchio: sussurra una nenia di morte, come le filastrocche del primo di Novembre. Percepisco dita fredde risalirmi per il corpo, infilarsi sotto i leggeri vestiti estivi, violare il mio intimo e poi afferrarmi la gola forte, saldamente.

Senza scampo, senza speranza.

Apro velocemente gli occhi, voglio vedere la luce, voglio tornare al mare, perdermi nei sentieri dei boschi più maestosi, voglio respirare l’aria fresca delle colline di primavera, ma sono ancora nell’aula del tribunale, i cinquanta cittadini sono rivolti verso di me e solo allora noto i loro occhi. Pece nera, ingannevole e malefica occupa iride e sclera, lasciando solo una pupilla dilatata.

E la malvagità mi colpisce allo stomaco. Le vene sul collo si dilatano. L’aria si appesantisce. Il senso di claustrofobia è così forte che mi ritrovo ad urlare un grido muto. I colori si mischiano, l’universo si sfalda e io precipito nella mia voragine, nella mia desolazione. Sento le parche tagliare il filo della mia vita. Sento mia madre gridare il mio nome, la vedo piangere di fronte a me. Vedo il suo dolore, chiaro come lo stesso dolore che ho cercato di nasconderle per anni.

Torno a respirare che sono tra le braccia del mio ragazzo, sta correndo verso la macchina a perdi-fiato, ma il nero non ci ha abbandonato, lo leggo un po’ negli occhi di lui, lo sento nei miei, che sono più fragile, lo vedo dietro di noi, calmo e cosciente di averci già distrutto. Il mondo non è un luogo per i forestieri.

Mi butta in macchina, accende il motore e parte il più lontano possibile.

Con le miglia anche i nostri cuori si rilassano e gli occhi tornano a brillare di luce propria.

Ferma la macchina, si gira, mi abbraccia. Sento la sua paura mischiarsi alla mia, mi vedo tremare nello specchietto. Ma va bene così, va sempre bene quando sono tra le sue braccia, ad assaporare l’essenza del suo amore per me. È meglio dell’antibiotico alla fragola che ci davano da piccoli, è meglio del primo bel voto al liceo, è meglio di una partita vinta, ed è forte, più forte del mondo intero. Ma come lui mi ama, è giusto che anche io lo ami e ogni posto sarà casa finché ci sarà lui ad aspettarmi.

“Torniamo a casa”.

Vecchia città, vecchia dimora, ennesimo perdono.

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One thought on “45. Io, vagabondo di me stessa

  1. Semplicemente fantastico, scrivi davvero molto bene! Il racconto è avvolgente, non riuscivo a smettere di leggerlo.
    Ogni cosa era al punto giusto: punteggiatura, tempi, tutto. Ti faccio i più sentiti complimenti.
    In poco spazio sei riuscita a farci stare tutto e, ti dirò, ero davvero immersa nel racconto!
    Complimentoni ancora!

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