46. Una vita in un secondo

Genere: Realistico

“Secondo lei, questa sua paura e il suo dolore a cosa sono dovuti?”

Per un attimo il mio cuore si fermò, i pensieri cominciarono a vagare… E chi pensava che a questa domanda dovessi rispondere io? Nessuno me lo aveva mai chiesto. E chi poteva? Sono sola. Mi avevano avvertito che le domande degli psicologi prendono sempre alla sprovvista.

Sentii un forte fastidio dentro di me, me ne volevo andare da quel luogo. Ma avrei fatto una brutta figura come prima seduta. Non mi restava altro che ricordare.

Un’improvvisa lacrima di nostalgia, dolore, codardia mi scese sul viso, mi sfiorò morbida le labbra. Arrivata al mento cadde sulla mia gamba formando sui pantaloni una circonferenza piccola, scura, perfetta. Perfetta come lo ero io un tempo.

Vivevo sui monti in un paesino di pochissimi abitanti. Era un paese allegro, spensierato ed era casa mia. Ma non mi bastava. Volevo fare di più della mia vita volevo studiare, laurearmi. Ero una ragazza modello per tutti e bella. A diciotto anni decisi di frequentare l’università a Milano. Ero emozionata, esaltata, pensavo al mio futuro, alla mia vita. Era l’inizio del mio viaggio, della mia avventura. Ma ero ingenua. Penso che nella mia sezione mi vedessero come la paesana ma non si poteva dire che non fossi brava.

E pensare che tutto questo ora non l’ho più: Il mio impegno, la coerenza, la capacità, l’applicazione, la cultura. Tutto buttato via e trasformato in giornate senza scopo, inutili.

Era il maggio del 1969 quando tutto cominciò a cambiare. Frequentavo da sette/ otto mesi l’università. Avevo dei professori eccezionali, che avevano anche riguardo per me, per i miei bei voti. La professoressa Bonfanti invece si dimostrava nei miei confronti molto distaccata, mi interpellava poco benché alzassi sempre la mano. In certi momenti mi accorgevo che mi fissava con sguardi mai visti e scriveva. Appena mi voltavo a guardarla distoglieva bruscamente da me gli occhi e continuava i suoi affari. Non sapevo che pensare. I miei voti con lei non erano mai ottimi ma non riuscivo a migliorare.

A volte l’uomo è soggetto a cose troppo grandi per lui e io ero giovane, non potevo capire. Ma quanto avrei voluto andarmene da quel posto prima che mi succedesse.

Un lunedì, dopo mesi che la Bonfanti si comportava stranamente, decisi che volevo sapere cosa pensasse. Approfittai di essere in anticipo di mezz’ora alle lezioni per recarmi nella nostra aula. Sapevo che la Bonfanti stava insegnando nel corso “D” e quindi ero tranquilla. Raggiunsi la cattedra con il cassetto in cui lei metteva sempre quegli strani fogli che scriveva. Trovai le chiavi e aprii. C’erano fogli sparsi accartocciati violentemente, pieni di scritte e cancellature. Ne presi qualcuno e iniziai a decifrare la scrittura confusa e disordinata. Parlavano di me, del mio viso “gracile e dolce”, delle mie mani “affusolate, perfette”, del mio profumo “di vaniglia”, delle mie gambe; me lo ricordo ancora il termine con cui le aveva definite: “sensuali”. Il mio sguardo rimase impietrito di fronte a queste sue parole segrete e impure. I giorni seguenti furono terribili e dolorosi, non riuscivo a guardarla in viso. Uscivo dalle lezioni perché mi sentivo male. “L’amore va veloce, gioca brutti scherzi e il suo era nemico della logica morale, opposto della fisica normale, geometria degli angoli nascosti.” Stavo male, avevo poche certezze e tanta paura così le scrissi una lettera perché non riuscivo a tenermi tutto dentro, volevo andarmene; non ero intenzionata a continuare così, nella paura. Penso che la mia lettera l’abbia colpita. Ci incontrammo un giorno in bagno faccia a faccia. Ci guardammo fisse: aveva in mano un foglio. Mi diede un bacio. Un bacio innocuo, una richiesta di perdono. Uscì dal bagno e fu l’ultima volta che la vidi. Il foglio che mi aveva lasciato parlava chiaro. Era stanca di tutto e così aveva ceduto, riteneva inutile la sua vita e voleva porne fine. Desiderava  realizzare però prima di andarsene il suo desiderio che ardeva da tempo.

Era la fine del mio viaggio, della mia esperienza. Sapevo che era tempo di tornare a casa. Quella scuola mi ricordava troppo la mia sofferenza per quella morte di cui la causa ero io. Rimase tutto un segreto custodto per anni e che non avevo intenzione di rivelare a nessuno.

“Ora non si preoccupi, se fa fatica ne parliamo assieme”

Mi accorsi di avere il viso tutto bagnato, non riuscivo a fermare le lacrime. Troppa stanchezza mi colpì d’improvviso. Troppi ricordi.

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