48. Alfa Centauri

Genere: Fantascienza

“Trecento anni non ti basteranno” mi disse “perché io ti perdoni.” Quella notte la Nona Eclittica era osservabile a occhio nudo, ricordo, e brillava come non mai sul piano astrale della galassia, circondata da un manto di satelliti. Ed era vero, in certo senso. Mi  minacciava di continuo che non mi avrebbe mai perdonato, per questo o per quello, se avessi fatto di testa mia. Ma io lo facevo comunque: se avevo torto, andavo a chiedergli scusa e lui mi perdonava; se avevo ragione, mi sorrideva di nascosto. Ma quella volta fu come una pugnalata al cuore e credetti davvero che non mi avrebbe mai perdonato e, in un certo senso, fu davvero così.

Molti ritengono che il commercio di brina rossa non sia realmente redditizio, ma è un errore. Nel nostro piccolo villaggio, eravamo molto ricchi, per questo. Mio padre aveva vissuto lì per una vita, diventando, da poco più che agricoltore, commerciante noto in tutti gli angoli del paese. Da piccola, mi dicevano che dovevo sentirmi molto orgogliosa di lui, ed effettivamente lo ero. Ma alla fine, non era che un piccolo villaggio su un piccolo pianeta di un anonimo sistema in mezzo alla Via Lattea, ed io mi sentivo incredibilmente sola. Quando guardavo, di giorno, le stelle coprire il cielo, mi pareva che mi fissassero intensamente migliaia di occhi e avide mani che tendevano verso di me, come ninfe celesti, naiadi, sirene, che tentassero una giovane avida di sapere. Per questo, mio padre era ormai abituato a sentirsi ripetere che volevo viaggiare. Ogni tanto mi avevo accontentato, andando in vacanza sul Quinto o sul Settimo Sole, che allora era la perla delle zone termali, ma a me non sarebbe bastata l’intera galassia, figurarsi due pozze d’acqua calda. Gli dissi che da grande mi sarei imbarcata su uno dei cargo che attraversano le galassie, anche solo come manovale, e avrei visto il mondo. Ma lui si ostinava a ripetermi che non sarei andata da nessuna parte senza due o tre lauree almeno, ed io finii per accontentarlo.  Negli anni di studio, impegnata in quello e poco altro, mi resi conto, nonostante tutto, di amare il mio pianeta. La vastità dell’universo inesplorato non era comparabile, tuttavia, nella sua piccolezza, percepivo di qualcosa di incredibilmente affascinante. La notte, vedere il tramonto e alzarsi per andare a scuola; camminare su prati d’erba rosa pallido, sentire la fragranza dei fiori che schiudevano i petali e il fruscio del vento. La potenza del mare e il calmo respiro del fiume. Percepivo la volta celeste ruotare sopra – e sotto – i miei piedi e con essa l’intero universo in mutamento; ma in quel piccolo angolo di essere che era la mia casa pareva che il tempo fosse venuto per fermarsi, come se si fosse voluto riposare.

Oltre a questo, lui voleva per me un futuro sicuro, il che necessitava non solo un lavoro sicuro – continuare nell’attività di famiglia, o magari diventare giudice del tribunale planetario, chissà -, ma necessariamente un posto sicuro dove abitare. L’universo in sé, di per sé, non è molto sicuro. “Ma è la casa di tutti!” gli dicevo quando ero più piccola “Se tutti ci abitano, un motivo ci sarà!”. Una casa troppo vasta, capii più tardi, facile perdersi. Sul nostro pianeta non c’era stata una guerra negli ultimi cinquant’anni, un piccolo paradiso, in fondo, e la vita era semplice. Avrei potuto facilmente essere felice. Lui me lo lasciava intendere, ripetendomelo spesso, esplicitamente, altre volte senza parlare affatto, con la sua sola presenza: era l’unica famiglia che avevo al mondo. Al termine della terza laurea, biomeccanica quantistica con una tesi sulla letteratura di fantascienza del XXI secolo, ero quasi sul punto di rinunciare. La sera, dopo la cerimonia di laurea, per festeggiare mio padre aveva organizzato una grande festa in giardino, e aveva invitato tutti i miei amici, i suoi stessi amici più molti altri venuti a congratularsi. Fu bellissimo, la ricordo come una delle sere più belle della mia vita. Ballammo, scherzammo, bevemmo il miglior nettare degli alberi viola di tutto il sistema planetario, e mi sentii felice. Poi tutti vennero più o meno ufficiosamente a congratularsi con me, tutti in fila, come una processione, ed io strinsi mille mani, una dietro l’altra, balbettando sempre più confusamente ringraziamenti sempre uguali, fino a che, a un certo punto, mentre una prozia della mia migliore amica mi faceva un lungo sproloquio sui suoi tempi e su come stavano le cose allora, persi completamente il filo del suo discorso, e mi misi a osservare la Nona Eclittica in cielo, visibile a occhio nudo quella notte, brillare in tutto il suo splendore. La osservai tanto a lungo, senza pensare assolutamente a nulla, che quando l’anziana signora terminò il suo discorso io ero ancora lì inebetita con lo sguardo al cielo. Presto tutti mi fissarono, e con quasi tutti gli sguardi addosso finalmente mi riscossi. Li guardai a lungo, ma non li vidi. Quindi, consapevole di aver preso la mia decisione, alla fine, mi tolsi i tacchi e iniziai a correre lungo il pendio della collina. Qualcuno mi inseguì, ma io non li sentivo neppure, e continuai a correre fino al porto interstellare. Non ricordo nulla del tragitto, ricordo solo che stavo correndo. Mi riscossi una seconda volta di fronte al portone d’imbarco, quando vidi mio padre, fermò dinnanzi a me. Lui mi conosceva ed era riuscito a seguirmi.

“Trecento anni non ti basteranno” mi disse “perché io ti perdoni.”. Ed era vero, in un certo senso, lo sapevo sin da allora, ma salii a bordo comunque, dopo averlo abbracciato, rigido come una statua di bronzo. Quindi partii.

Sono passati cento anni da allora, ma non me ne pento. Molte volte ho sentito la sua mancanza come un fuoco a scottarmi la carne, quasi Alfa Centauri, o qualsiasi altra stella della galassia, fosse a pochi centimetri dalla mia pelle. Non mi bruciava, tuttavia, ed era un dolore silenzioso e costante, quanto lo è la rotazione dei corpi celesti. Ho visto più di quanto avrei mai potuto sognare: piogge di meteoriti nell’Occhio di Dio, i cavalli alati di B97 e le rose del Giardino Celeste su Crono; ho pranzato con l’imperatore della Nona Interstellare, mentre davanti a noi la Nona Eclittica splendeva nel suo peregrinaggio eterno – mi propose di sposarlo quella sera, ma aveva già due mogli e la cosa non mi allettava; ho dormito con le amazzoni di Beta19, e  mi hanno insegnato a costruire piccoli cyberprocessori tascabili per ogni evenienza. Ho visitato quasi tutti i pianeti al di qua della Via Lattea. Forse non ho visto tutto, ma di certo quanto basta per una vita intera. Solo un rimpianto ho avuto una volta. Mi trovavo allora vicino ad Alfa Centauri, mentre stavano effettuando delle scansioni sul pulviscolo stellare, e mi arrivò una lettera. Mio padre aveva mentito. Mi aveva già perdonato da tempo, allora, e riusciva quasi a mascherare l’apprensione quando mi scriveva chiedendomi delle mie “avventure”. Trecento anni non era passati, neppure tre mesi, invece, e mi aveva già perdonato. Ma quella notte, o giorno che fosse, davanti ad Alfa Centauri, mi scrivevano che era morto. Ed io piansi a lungo,  perché tutta la mia famiglia era ora morta con lui, io avevo nuovi amici e quelli vecchi li stavo dimenticando, per cui cosa più mi legava a quel pianeta? Alla mia casa?

Il dolore non è un cancro, che può essere asportato o uccidere lentamente. Il dolore è un lunga febbre, un’influenza, che comporta stanchezza, spasmi e necessita riposo. Non si guarisce in un giorno. Per questo ho impiegato così tanto a guarire, e solo oggi, a oltre vent’anni di distanza, posso tornare. Non so più cosa mi lega alla mia casa, o se la posso definire ancora tale. So che un tempo lo era, e per questo, sia anche un debito che devo a qualcuno, ora devo ritornare.

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