53. La terra di Erin

Genere: Realistico

Il ragazzo con il violino si chiama Jack Mooney, ma questo l’ho scoperto solo qualche giorno dopo il mio arrivo a Dublino. La prima volta che l’ho visto, in un pub di Tullamore, si stava mettendo in tasca un coltello preso dal bancone, mentre il barista gli dava le spalle per servirgli una birra.

Dice che il coltello gli serve per difendersi e che dovrei procurarmene uno anch’io, per sicurezza. Finora però non si è mai presentata un’occasione di pericolo, tranne forse quando la polizia ha sgomberato i vecchi capannoni del porto. Quella sera ho avuto così paura che per un attimo ho seriamente pensato di usare il pezzo di vetro come arma, ma sono troppo codarda e non l’ho nemmeno tolto dalla tasca. Ora io e Jack viviamo al mercato e lì non si sta affatto male. Ho imparato in fretta a non occupare gli spazi degli altri, perché pare che ogni vagabondo che vive qui consideri proprio un particolare angolo di questo posto. Secondo me non fa molta differenza, ma Jack dice che non capisco e probabilmente è così, in fondo faccio questa vita solo da qualche settimana, mentre lui ha l’aria di aver vissuto in strada da sempre. Ho provato a chiedergli come viveva prima, ma mi ha liquidato dicendo che non se lo ricorda, era troppo piccolo. Io invece mi ricordo fin troppo bene quello che ho lasciato indietro, la grande casa vuota, il pianoforte, le mie bambole. A volte vorrei dormire di nuovo nel mio letto, con le lenzuola pulite e calde, perché il pavimento di pietra mi sta distruggendo le ossa e piango quasi ogni notte.

Ma ho imparato che la rabbia può essere più forte della nostalgia. Per quanto possano mancarmi le comodità e la routine niente al mondo potrà costringermi a tornare a Galway, non dopo che ho camminato così tanto per allontanarmi. Ho messo duecento chilometri fra me e tutto quello che mi impediva di fare a modo mio, duecento chilometri che mi sono costati piaghe sui piedi e stomaco vuoto per parecchi giorni. Sono partita il cinque novembre, in una delle rare belle giornate che l’Irlanda può offrire, con uno zaino così pieno che ho dovuto abbandonare la maggior parte dei vestiti dopo solo tre chilometri. I soldi sono bastati per una settimana, mentre il cibo è finito troppo velocemente e sono stata costretta a chiedere da mangiare a Jack. Lui è stato gentile e ha diviso con me il suo pranzo senza fare commenti, ma credo che non esista nulla di più umiliante di dover elemosinare qualcosa, soprattutto perché poi ci si sente in debito con chi ti ha aiutato. Questa è la prima cosa importante che ho imparato da quando ho cominciato il mio viaggio.

La seconda è che la gente di qui è molto diversa da quella che ho lasciato a casa, se si può chiamare casa un posto dove la massima preoccupazione di chi dovrebbe volerti bene è che tu non faccia brutta figura. Correre non è da brave ragazze, commentare nemmeno, pensare è addirittura uno scandalo. A nessuno di quelli che vivono nel mercato importa qualcosa di come mi muovo o di come parlo, perché qui la cosa davvero importante è trovare cibo e un riparo per la notte, giusto un buco dove non filtri troppa acqua. E se fa freddo ci si stringe gli uni agli altri.

La vita di strada non è esattamente come l’avevo immaginata, un concentrato di indipendenza, libertà e autonomia, ma è piuttosto il riflesso degradato della buona società che a Galway mi ha tenuto nella bambagia. Fra gli straccioni e i vagabondi valgono le stesse regole che tra i piccolo borghesi, con l’unica differenza che il fine è sopravvivere: non puoi permetterti di essere troppo egoista, perché un giorno potresti essere tu ad aver bisogno di aiuto.

La mia fortuna è stata incontrare Jack, che da Tullamore ha proseguito lungo la mia stessa strada. Parla così poco che per giorni abbiamo camminato insieme senza sapere il nome dell’altro né dove stava andando, anche se oltre Dublino non ci sono molti altri posti dove un viaggiatore potrebbe andare, soprattutto se si tratta di Jack. Qui è così felice che la città sembra essere stata costruita apposta per lui. Nonostante si preoccupi di fare economia di parole è capace di stringere amicizia con tutti e riesce sempre a procurarsi quello che vuole, che sia un’informazione o una birra. Nonostante sia poco più grande di me ha la saggezza e l’esperienza di un uomo con il doppio dei suoi anni ed è abbastanza affidabile. Probabilmente è vero che ha vissuto per strada fin da quando ha memoria. A volte ha bisogno di stare da solo e allora sparisce per un giorno o due, poi ritorna come se non fosse successo nulla. Di solito, mentre lo aspetto, passo le mie giornate gironzolando per la città o facendo la giocoliera per guadagnare qualche spicciolo. Jack mi sta insegnando a lanciare in aria dei coltelli invece che le palline, dice che più il numero è pericoloso più il cappello si riempie di monete. Ha le braccia piene di cicatrici, frutto di lanci falliti, e perfino una guancia porta un taglio recente. Normalmente mi sarei lasciata spaventare, ma sono molto cambiata ed ora riesco a maneggiare due coltelli senza farmi troppo male. Mi impegno perché voglio rendere Jack orgoglioso di me, dimostrargli che sono capace di cavarmela da sola, visto che ormai ho deciso che casa mia non è più a Galway ma qui, con lui. In realtà casa è dovunque io decida di andare, perché  non sono quattro mura che la rendono tale, ma il fatto che ci si trovi a proprio agio.

Finalmente ieri, dopo tanti giorni di attesa, la polizia ha reso pubblica la caccia all’uomo, confermando quanto in poco tempo i tentacoli della mia famiglia arrivino lontano: è stata diffusa una fotografia che mi ritrae al matrimonio di Katherine, con il vestito buono e un sorriso di circostanza. Ma sono talmente cambiata che non mi riconoscerebbe nemmeno mia madre: specchiandomi nelle vetrine non vedo più il riflesso della bambina che ha accompagnato la sorella all’altare, ma quello di una ragazza con un cespuglio di capelli rosso sporco in testa, più magra ma sicuramente più felice. Ho un nuovo obiettivo: voglio morire con Dublino scritta nel cuore, come Joyce. Voglio che tutto quello che ho visto rimanga in un posto sicuro dietro le palpebre, così quando sarà la mia ora potrò vedere la mia vita passarmi davanti agli occhi e rallegrarmi di non essere rimasta nel nido in cui mi avevano rinchiusa. So che ci sono ancora moltissime strade su cui camminare, persone da conoscere ed esperienze da fare. Spero che Jack vorrà accompagnarmi, ormai sono così abituata a camminare con lui che è come se i miei piedi e i suoi fossero parte di un unico meccanismo che non può essere fermato. Se invece il mio amico ha altri progetti, ognuno andrà per la sua strada e magari un giorno ci incontreremo ancora da qualche parte.

Zia Sarah, che crede nel destino, dice sempre che prima o poi quello che è scritto trova il modo di avverarsi. All’inizio non ci credevo, ma ora so che ha ragione.

Il destino del viaggiatore è quello di continuare a camminare e man mano che avanza la strada gli si appiccica addosso, come una seconda pelle. È inutile tentare di lavare via lo sporco, di rammendare gli strappi e curare le ferite.

La polvere trova sempre un modo per ritornare sui vestiti e la pioggia bagna comunque fino al midollo.

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4 thoughts on “53. La terra di Erin

  1. Davvero complimenti! Mi piace il modo in cui hai raccontato la storia, semplice e lineare, mi sembrava di essere lì con la protagonista e ascoltarla in un momento tranquillo, con il frastuono del mercato attutito. Mi hai completamente immerso nella lettura e l’ho letto con molto piacere!
    Complimenti ancora!

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