54. Fuga da, costruzione di

Genere: narrativo

2 gennaio 2009

Quando riprese conoscenza sentì innanzitutto la pressione ai polsi. L’uomo la penetrava ancora, sdraiato sopra il suo corpo, tenendole le braccia ferme all’altezza delle spalle. Sentì poi che l’erba gelida le pungeva la schiena. Cercò di urlare, ma le sembrò che la gola si fosse chiusa impedendole di respirare; si accorse che il corpo le si era irrigidito. Guardò davanti a sé e vide immagini sfumate e piene di luce rincorrersi con calma crescente, fino a fermarsi, per poi cambiare forma e colore e riprendere la corsa. Le orecchie iniziarono a fischiarle, ebbe un capogiro e fu costretta e chiudere gli occhi per il senso di vertigine nauseante. Li riaprì solo quando si accorse che l’uomo era uscito dal suo corpo. La alzò da terra, la fece sedere su una panchina, le si mise davanti e tentò di tranquillizzarla con parole veloci e confuse. Seguitò a parlarle fino a quando la vide alzare gli occhi verso di lui, poi verso il cielo nero.

<<Vedo le lettere delle parole che dici>>.

<<Che cosa hai detto? Quali parole?>>.

<<Tutte. Nel cielo. Le lettere dell’alfabeto>>.

<<Mi prendi in giro? Vuoi scherzare con me?>>.

Alzò il braccio destro con il palmo della mano spalancato, pronto a colpirla in faccia; poi cambiò idea e si fermò.

<<Sono arancioni, scritte in corsivo. Tutte le lettere che dici. Nel cielo>>.

L’uomo non rispose, la guardò soltanto: aveva gli occhi rossi, crollanti e spenti, e vedeva le lettere nel cielo. Pensò che la droga aveva funzionato bene, che la ragazza avrebbe probabilmente dimenticato tutto.

Le disse ugualmente con tono di minaccia:

<<Non dire niente a nessuno>>. Se ne andò.

La ragazza fece per pronunciare una parola, ma l’angoscia le bloccò il respiro in gola. Pensò al proprio corpo, così violentemente obbligato a cedere alle voglie di un uomo, ne ebbe orrore. Sentì il vento sul viso e desiderò essere aria, immateriale, per non essere toccata più. Guardò di nuovo le lettere nel cielo e immaginò di raggiungerle, di trovare rifugio al loro interno. La testa prese a girarle, si lasciò cadere per terra e chiuse faticosamente gli occhi per non sentirvi dentro il terrore.

 

10 gennaio 2009

Lasciò che l’acqua bollente raggiungesse il bordo prima di entrare nella vasca. Si sdraiò lentamente, sentendo il calore bruciarle la pelle. Alzò una gamba fino a farla emergere, la guardò: era rossastra per il caldo, gonfia in prossimità della caviglia; il ginocchio era nascosto da una macchia blu con sfumature verdi e gialle. Distolse lo sguardo, lasciò cadere la gamba senza controllarne la forza. Cercò di vedere se stessa da fuori; immaginò di aprire la porta del bagno, entrarvi, trovarsi lì, nuda, nella vasca, con la pelle rossastra e il livido sul ginocchio, tra quattro pareti strette e una luce soffusa e uno specchio opprimente. Sentì tutta quella materia che le stava attorno come una prigione dura, di cemento, senza fessure in cui nascondersi. Sentì il proprio corpo allo stesso modo. Ripensò alle lettere nel cielo e immaginò di afferrarle con la mano, senza mai riuscirvi. Desiderò essere fatta della stessa inconsistenza. Osservò il proprio corpo dentro l’acqua, cercandovi la fine, l’inizio, i contorni per poterlo sopraffare. Ebbe paura che quell’ammasso mostruoso di materia viva le si ritorcesse contro, che la pelle le si stringesse addosso fino ad ucciderla. Sentì il respiro bloccarsi in gola, si tappò la bocca prima di sprofondare sotto l’acqua, con gli occhi spalancati.
 

13 ottobre 2016

Cara amica,

questa mattina sono tornata – con gli occhi della memoria – al giorno di quell’unico anno di scuola trascorso insieme, quando tu mi dicesti: <<Io so che cosa ti è successo>>. Ti scelsi proprio allora, in quel momento, come confidente salvatrice. Ti parlavo del mio viaggio di auto-decomposizione, dicevo: <<Vorrei essere mimetica come il camaleonte, trasparente come l’aria, Pensiero privo di corpo>>. Volevo liberarmi della materia, che mi atterriva per la sua solidità. La paura è sentirsi chiusi in una stanza dalle pareti bianche, senza porte né finestre. Quante volte sognai di trovarmi in un labirinto di corridoi pieno di corpi senza volto e sporchi di fango che mi si avvinghiavano ai piedi, alle gambe, alle mani, e io correvo, scappavo lontano, per trovarmi sempre, inevitabilmente, al centro della mia stanza del terrore. Le pareti bianche si comprimevano piano, avvicinandosi a me per schiacciarmi; io urlavo, e mi svegliavo.

Insieme a te, quell’anno, arrivò la voglia di capire. Ricordi le ore di fastidiosa tristezza in cui non trovavamo soluzioni ai problemi e risposte alle domande? Cercavamo l’apertura mentale integra, senza vincoli, ad angolo giro. Com’erano meravigliosi i nostri sogni utopici! Ci interrogavamo sui limiti della comprensione – fino a che punto posso capire? – e della scrittura – qual è il massimo che posso aspirare a creare? – . Leggere, scrivere, capire le parole, attraversarle, immergersi nella loro profondità. Scoprii con il tuo aiuto e la tua partecipazione che potevo svuotarmi della materia per riempirmi di qualcos’altro. Continuò ad essere una fuga, ma alla fuga si aggiunse un rifugio. Durante le lezioni di italiano vedevo il senso profondo delle cose emergere piano dalle parole, prendere vita e straripare dagli occhi dell’insegnante. Fu allora che scelsi la Facoltà di Lettere, perché le parole sono abissi in cui mi sentivo piacevolmente al sicuro. E la letteratura – io credo – è sublime in quanto a parole.

Ma ora, mia salvatrice, non c’è più viaggio di demolizione. Non c’è più fuga da, ma solo costruzione di. Nel mondo astratto delle parole.

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