59. I confini del mondo

Genere: storico

È deciso, ero pazzo. Tutti quelli che erano sulla nave erano pazzi. Ma io ero il più pazzo di tutti. L’unico che abbia barato sull’età per farsi accettare.

Mi appesi alle sartie, lasciandomi dondolare oltre il bordo della nave. Posizione pericolosa. Se Yanez, il capitano della Niña, mi vedeva lì in ozio mi avrebbe buttato di sotto.

-Ehi, Eloy!- mi chiamarono. Mi tirai sulla nave. -La Pinta ci ha superati!

Digrignai i denti.

-Oh no!- risposi -Avevo scommesso che saremmo rimasti in testa!

-Anch’io!

Me ne andai a prua dove mi unii ad altri marinai, sconsolati come me per il sorpasso. Visto che sulla nave non c’era poi molto da fare, ci eravamo inventati un dispendioso passatempo: le scommesse. Tutti i giorni scommettevamo su quale delle tre navi, la Niña, la Pinta e la Santa Maria fosse stata in testa. Perdevo regolarmente. Ero seccato: i soldi a casa ci servivano. Eppure non riuscivo a farne a meno: volevo avere la soddisfazione di vedere il denaro arrivare dritto nelle mie tasche. Forse mi era venuta la febbre del gioco.

-Perdiamo ancora, eh, ragazzino?

Sapevo di chi era quell’orrenda voce nasale che mi provocava.

-Piantala, Yago!- ribattei senza voltarmi.

È cominciato tutto una settimana fa. L’unica scommessa che ho mai vinto, ovvero il numero di volte che lo stomaco di Gerardo, l’unico marinaio che conosca che soffre il mal di mare, avrebbe ceduto quel giorno (sì, eravamo proprio annoiati per fare scommesse del genere). Avevo scommesso con Yago, il marinaio più robusto della Niña e lui non l’aveva presa bene che il più giovane, nonché unico, mozzo (avevo sedici anni) della nave l’avesse battuto. Avevo passato più di due ore rifugiato in cima all’albero maestro prima che i miei compagni riuscissero a fargli capire che spaccarmi la faccia non avrebbe risolto la situazione. Da quel giorno, Yago non aveva più perso il controllo, ma ci eravamo andati vicino. Era una specie di gara tra noi, e mi giocherei la testa che gli altri scommettessero anche su questo: chi aveva più autocontrollo?

-Altrimenti che mi fai, ragazzino? Corri dalla mamma? Oh, ma tu non ce l’hai la mamma!

Mi voltai di scatto, il pugno alzato, pronto a partire. Mi bloccai appena in tempo: ci tenevo ad arrivare in India con tutte le ossa intere. Scossi il capo e feci per andarmene.

-Che c’è, Eloy?- continuò Yago -Hai paura?

Non potevo ignorarlo. Non più.

-Sì, ho paura.

Yago sorrise.

-Ho paura di farti male- mi corressi. Sorrisi anch’io. Far perdere le staffe a Yago è troppo facile.

-Sei finito- ringhiò prima di lanciarsi contro di me. Mi scansai appena in tempo per evitarlo, alzando un ginocchio e prendendolo in pieno stomaco. Un punto per me.

Mi allontanai il più velocemente possibile dal mio avversario, che mi guardò sputando veleno dagli occhi. Mi lanciai una rapida occhiata intorno. Si cominciava a scommettere. So anche per chi.

Yago si avvicinò di nuovo, guardingo. Si buttò di nuovo in avanti e mi abbassai un secondo prima che il suo pugno destro mi sfondasse il cranio. Cercai di sgusciare via di lato, ma Yago mi afferrò con la sinistra. Mi divincolai inutilmete. Il marinaio mi sollevò e mi sbatté brutalmente contro uno degli alberi. Poi le sue mani mi strinsero la gola. Cercai di difendermi a calci, ma stringeva troppo forte. Mi colpì con un pugno e sbattei la testa contro il legno duro. Sentivo i polmoni in fiamme. Non avrei resistito ancora a lungo.

-Che succede qui?

Ufficiali. Grazie a Dio.

Yago mi lasciò cadere sul ponte. Mi contorsi tossendo, cercando di respirare.

-Che avete combinato?

Il primo ufficiale mi fissò. Che pena dovevo fargli.

-Si è sentito male…- tentò di giustificarsi Yago.

L’uomo mi prese il mento e mi girò la faccia. Cercai di trattenere la tosse.

-A giudicare da questo livido qui, qualcuno l’ha aiutato a sentirsi male.

Fulminò Yago con lo sguardo.

Mi portarono dal dottore che, dopo avermi visitato, mi lasciò riposare. Steso su una branda, ebbi tutto il tempo di pensare. Casa. Juan, che aveva solo dodic’anni. Papà, ormai vecchio. Come avrebbero fatto senza di me? Perché ero sempre in cerca di guai?

Non mi persi particolari avvenimenti. Il giorno dopo ero già in piedi. Quel giorno… il 12 ottobre.

Come sempre oziavo sulle sartie. Poi… la vidi. Io. Mi sporsi per accertarmene. Poi gridai, con il fiato che mi restava nei polmoni:

-Terra!

Sì. era la terra. Il viaggio era arrivato al termine. Avevamo oltrepassato i confini del mondo. Ma significava anche che non potevo essere più lontano da casa di così. Una fitta di dolore mi trapassò il petto.

Ci abbiamo messo tutto il giorno per approdare, ma ce l’abbiamo fatta.

Gli ufficiali decisero di mandare una piccola combriccola ad esplorare il territorio. Io fui tra quelli. E anche Yago.

Saltai sulla barca a remi, ma i remi non me li vollero dare: secondo loro ero ancora convalescente.

Io e Yago non ci rivolgemmo parola per tutto il viaggio. Anzi, non ricordo neanche di aver incontrato il suo sguardo.

Una volta a terra, decisero che qualcuno doveva rimanere a guardia della nave. Uscì Yago. Tirai un sospiro di sollievo. Se solo avessi saputo…

Ci addentrammo nell’interno dell’isola, che era ricoperto dalla vegetazione. Imbracciai il fucile. Chissà cosa vi avrei trovato. O meglio, chi. Sapevo poco di ciò che si raccontava sulle popolazioni orientali. Ma erano ricchi. Molto ricchi.

Inciampai, forse in una radice. Ero l’ultimo della file, nessuno se ne accorse. Rimasi indietro. Errore madornale.

-Che c’è, ragazzino, sei caduto? Ti serve la manina? Hai appena imparato a camminare, lo dimenticavo.

Ancora quell’orribile voce nasale.

-E tu che ci fai qui? Non saresti dovuto restare di guardia?

Yago sorrise.

-E perdermi la resa dei conti con te? Neanche per sogno.

Mi alzai per fronteggiarlo di nuovo. Non capivo. Se non fossero intervenuti gli ufficiali, probabilmente sarei morto. Compresi troppo tardi. L’uomo aveva già sparato, dritto alla mia gamba. Non ebbi neppure il tempo di gridare che mi tappò la bocca con qualche straccio.

Non ricordo bene cosa successe dopo. Ero stordito. Yago mi buttò tra gli alberi. Persi i sensi.

Aprii gli occhi in una tenda. Lo compresi dalla striscia di tessuto tesa sopra di me.

Cercai di alzarmi, ma una mano rugosa mi spinse di nuovo giù. Ero troppo debole per protestare. Osservai l’uomo al mio capezzale: era vecchio, con una carnagione molto abbronzata, pieno di rughe. Sembrava fatto d’argilla essiccata.

-Dove sono?- domandai. L’uomo rispose in un’altra lingua.

Mi mossi leggermente e una fitta lancinate mi attraversò la gamba destra. Mi morsi il labbro per non gridare.

Guardai il vecchio. Dovevamo comunicare in qualche modo. Notai il pavimento in terra battuta.

Mi sporsi dalla branda e disegnai una nave.

L’uomo fissò prima quella, poi me. Poi indicò me e in seguito il disegno. Annuii. Sì, io ero sulla nave. Mi indicai, e poi indicai la nave. Io dovevo tornarci, o mi avrebbero lasciato lì. Tentai ancora di alzarmi, ma quello mi costrinse a sdraiarmi. Mi ribellai, e a quel punto il vecchio mi lasciò fare.

Per prima cosa esaminai la ferita. Non era profonda, Yago mi aveva preso solo di striscio. Entro pochi giorni sarei stato di nuovo in piedi. Va bene, forse un po’ zoppicante…

E così fu. Ma non rimasi esattamente in ozio. Osservai bene il villaggio in cui mi trovavo. Si viveva bene. Fui accolto come fossi uno di loro. Si preoccupavano sempre che avessi da mangiare. Non c’era modo di fargli capire che esageravano. Un giorno mi si avvicinò una bambina, curiosa. Mi porse gli stracci che aveva in mano. Una bambola. Feci per cullarla. La piccola sorrise. Avevo avuto una sorella, Estella. Era morta che aveva cinque anni, più o meno l’età della bimba che mi stava davanti. Le somigliava anche.

Quell’immagine mi rimase impressa. Una parte di me è rimasta con lei. Con loro. Ce l’ho davanti agli occhi ora che racconto. Ora che i conquistadores invadono quelle terre, e fanno strage di bambine come quella. Yago è il peggiore, lo conoscono tutti.

Ho deciso. Partirò. Li aiuterò. Magari mi unirò a Francisco de Vitoria. Non importa come. Lo farò.

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