60. Nebbia

Genere: surreale

Le vetrate sulla volta dell’immenso atrio mostrano lo stesso cielo che ho sempre visto da quando ho cominciato a lavorare qui: nebbioso. È molto facile immaginarsi questa nebbia chiara che avvolge la stazione come un lenzuolo leggermente umido, e se chiudo gli occhi vedo perfettamente il paesaggio là fuori ricoperto dalla neve.

Attraverso velocemente l’atrio tra la folla che ciondola tranquilla e silenziosa per tornare al mio sportello.

La stazione come sempre è ovattata da quella penombra grigia delle giornate di pioggia: un tempo trovavo quest’atmosfera piuttosto rilassante, invece oggi mi provoca una sensazione spiacevole. In questo periodo non amo svolgere il mio lavoro come mi è sempre stato facile fare e, poiché lavoro continuamente, mi sento oppresso. Penso che un giorno tutto questo finirà, ma non so quando, né i superiori si sono mai degnati di dirmelo. In realtà non ricordo nemmeno quando cominciai a lavorare alla stazione, è come se lo facessi da sempre.

Davanti allo sportello sta moltissima gente: tutti visi diversi, tutte persone che vogliono evidentemente sfuggire dal grigiore di questo luogo. Raggiungo il mio posto con estrema riluttanza, perché preferirei confondermi tra la folla, stando attento a non farmi riconoscere dal collega che mi avrebbe dato il mio biglietto e poi sarei partito…

 

Scuoto la testa per scacciare questi pensieri e accolgo con un sorriso professionale la smunta signora che precede la fila davanti al mio sportello.

«Buongiorno» le dico, scrivendo il suo nome sul grosso libro sulla scrivania. «La aspettavo molto prima: ha avuto una giornata difficile?». La signora sbatte le palpebre, stupita. «Ci conosciamo?». Sono così buffi quando fanno così: non si ricordano mai di me, nonostante tutti si rechino alla stazione ogni giorno. Ricordo che i primi tempi mi offendevo un po’ (dopotutto io riconosco ognuno di loro), ma ora ridacchio solo tra me e me.

La signora ha un evidente bisogno di sfogarsi perché, nonostante sia per lei uno sconosciuto comincia a raccontarmi la sua giornata travagliata: «…i dottori dicono che le mie condizioni stanno peggiorando, che devo riposarmi e…». La ascolto meno interessato del solito mentre prendo dall’archivio dietro di me una gonfia cartelletta; lei continua a parlarmi mentre compila il questionario che le ho posto davanti. Oggi non riesco a crucciarmi riguardo ai suoi problemi. Proprio non posso essere solidale nei suoi confronti, come nei confronti di chiunque altro nella stazione, perché questo pensiero mi mette tristezza: loro sono qui per partire, io per restare.

Lascio vagare lo sguardo sulla coda chilometrica di persone. Hanno un’aria tranquilla, quasi confusa, come se non sapessero perché sono qui: me ne sono sempre chiesto il motivo.

Nel frattempo la signora sta litigando con la penna, che si rifiuta di barrare una casella del documento. Anche questa, naturalmente, è una consuetudine.

«Sia sincera, per cortesia» le dico, «barri la casella giusta». Lei fissa perplessa il foglio per un attimo, dopo sceglie un’altra casella. «Ecco, ho finito».

Prendo il questionario, poi dall’archivio estraggo una grossa boccia di vetro etichettata col nome della signora e ricolma di bigliettini colorati. Sminuzzo in tanti pezzettini il questionario e li lascio cadere nella boccia, porgendola alla signora.

«Ne peschi alcuni, per favore». Lei esegue e mi mette nelle mani dei bigliettini: la maggior parte sono viola, brutto segno. Li esamino meglio ed ora provo un po’ di compassione per questa povera signora, perché la malattia la tormenterà anche nel sonno.

«Venga con me, l’accompagno al suo binario». La signora mi segue e per mezzo di una porta laterale siamo subito fuori sulla neve fresca.

 

I treni, nascosti dalla nebbia, sono tantissimi e sembrano fatti di vetro. Qua e là incrocio un collega che accompagna altre persone al loro treno.

«Ecco». Siamo davanti ad un treno semplice, con le porte aperte e i posti vuoti. «Deve salire qui» dico alla signora. Lei si issa sulla piattaforma e mi guarda lanciare davanti al muso del suo treno i bigliettini, che si dileguarono col vento nella nebbia. Se questa si diradasse probabilmente vedrei all’orizzonte la destinazione comparire come una goccia d’acquarello caduta su un foglio bianco.

«Buon viaggio» auguro alla signora, pur sapendo che non lo sarà; lei mi saluta appena, il volto finalmente disteso e rilassato. Ingenua. Il treno parte e, quasi senza rumore si allontana nella nebbia.

Torno sui miei passi, incrociando un collega. Mi domando come faccia a sentirsi così a suo agio; in realtà sarebbe più corretto chiedersi come mai io non mi senta a mio agio, ma lui non fa domande e accompagna il suo cliente al treno. Invece io mi gingillo sul posto, indeciso sul da farsi: non ho voglia di ritornare subito allo sportello; d’altro canto non posso farmi vedere con le mani in mano, e se passasse uno dei superiori? Decido di prendere la strada più lunga e mi dirigo verso la piazza davanti alla stazione.

 

I ciottoli perlacei mi danno una piacevole sensazione ai piedi: forse non sono mai passato per di qui; non ricordo. Subito quel fagotto umido e stretto attorno al mio cuore si allenta un poco. Più felice mi guardo attorno, per cogliere qualsiasi altro fatto che mi possa sembrare una novità.

Ora riconosco l’altissima statua chiara che si erge al centro: devo essere già stato qui.

L’ordinata coda di persone alla stazione comincia dall’esterno: la piazza è gremita e non posso vedere da dove provenga la folla, anche a causa della nebbia. Si potrebbe pensare che le persone spuntino come funghi dalla piazza stessa. A destra torreggia la stazione. Da lontano si legge appena ciò che sta scritto sopra l’ingresso: Stazione degli Angeli – Sogni.

«Permesso, mi scusi, posso passare?». Procedo tra la folla, senza che nessuno brontoli. Essendo ormai nascosto tra le persone, decido di concedermi qualche altro attimo di libertà. Scivolo tra la gente per raggiungere i piedi della statua: lì sicuramente non ci sono mai stato.

Chiunque raffiguri, non mi è possibile capirlo, perché la nebbia la avvolge completamente. Nonostante questo, sono attraversato da un brivido euforico: sento che queste scoperte mi bastano, che questo viaggio attorno al mio mondo è sufficiente a rendermi felice, che non è necessario scappare sul treno di uno dei miei clienti.

Sono così entusiasta che non mi accorgo di essere in un punto della piazza in cui non c’è nessuno: è un corridoio vuoto tra due spesse file di persone, divise dalla statua come da una lama. Temendo di essere visto da un superiore, mi tuffo nell’altra fila. Dove porterà?

«Ehi, tu! Dove credi si andare?». Una voce sgarbata mi colpisce come goccioline d’acqua gelata; un energumeno si avvicina minaccioso. Non l’ho mai visto prima d’ora: non è un superiore, ma incute timore.

«Sì, chiedo scusa, ora torno al mio lavoro» borbotto ad occhi bassi. «Sarà meglio!» abbaia lui. Mentre mi allontano a passi rapidi non posso fare a meno di girarmi un’ultima volta, e quello che vedo mi lascia a bocca aperta: la seconda fila dalla quale sono appena fuggito entra lentamente in un altro edificio a sinistra della mia stazione, uguale ad essa in tutto e per tutto.

Quasi urto una signora che si sta dirigendo proprio là. È quella che ho appena servito. «Signora!» esclamo stupito, «È già tornata? Perché va da questa parte?». Ma lei pare non sentirmi e mi supera veloce. La seguo, la testa ronzante di domande, ma l’energumeno mi blocca.

«Lascia stare» dice, «dimentica ciò che hai visto: il tuo posto è qui. Il loro no». Ha una voce quasi comprensiva. Vorrei urlare, vomitargli addosso tutta la mia frustrazione, ma taccio.

Scappo via verso la mia stazione – no, non è mia: la mia vera stazione non esiste.

So che la signora non tornerà, come tutti i miei clienti che un giorno hanno smesso di venire da me. Non so perché; però li invidio.

 

In mezzo alla piazza volgo gli occhi al cielo. La statua rappresenta una figura nera, celata, con una falce puntata verso la stazione misteriosa.

Non ci bado.

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