66. Lo stacco

Genere: fantastico

Mi conosco, so quando non chiuderò occhio. Sono nel mio letto e fisso il vuoto: frequentemente ho problemi ad addormentarmi, sento che sta sera sarà uno di quei giorni.

Penso spesso all’importanza della concentrazione, concentrazione per porre l’attenzione solo e soltanto alla situazione che si sta vivendo e abbandonare tutto il resto. Questo serve per fare bene una prova, per rendere al massimo nello studio, ma anche in altre circostanze come quando si sta parlando con un’altra persona per entrare in empatia con questa.

Di sicuro ci si può concentrare anche per addormentarsi.

Accanto al mio letto c’è un lettore-CD, accanto a questo la custodia del CD “The dark side of the moon” dei Pink Floyd. Mi alzo, prendo il CD e lo pongo nel lettore. Schiaccio il pulsante play e mi infilo di nuovo sotto le coperte ormai caldine.

Cerco di svuotare la mente e mi faccio aiutare dalla musica per farlo. Mi concentro solo su di lei, ma non tanto sulle parole quanto sul suono in sé, che diventa più forte e poi più debole, che sale e poi scende, che fluttua nell’aria come una piuma. Sento quindi come, piano piano, la musica si concretizza in un flusso di colore che si dirige verso di me. Entra nel mio corpo dagli alluci. Tutta la mia concentrazione è posta nel flusso che ora ha riempito tutti i miei piedi. Solo quando ha riempito ogni singola cellula dei piedi posso salire verso le gambe, che iniziano a formicolare poi il flusso si spinge verso la pancia e qui fluttua per un paio di secondi perché la musica ora è tranquilla… Quando questa rincomincia a crescere di intensità il flusso si spinge verso le braccia e le riempie totalmente. Pian piano mi stacco dal letto perché la musica mi da leggerezza, non sento più le coperte sopra il mio corpo, il cuscino sotto la mia testa. Ma il flusso non ha ancora finito il suo viaggio: non è arrivato a riempire la testa. Ma anche se mi concentro tanto non riesco a immaginare di farla entrare: la mia testa è fatta come di cemento armato e non lascia entrare niente. Intanto la musica cresce e inizia ad occupare tutta la stanza. Continua a crescere, ora tutta la casa ne è piena, a parte la mia testa che continua a opporre resistenza. Ma la pressione è troppo forte e ad certo punto, quando la musica arriva alla sua massima intensità prima di tranquillizzarsi, proprio in quell’istante, il flusso entra nella mia testa, come mille aghi a velocità altissima e con così tanta forza da trapassarla totalmente. Sono totalmente rilassata e nella mia mente c’è solo musica, i miei occhi non sono più rivolti verso l’esterno ma verso l’interno. Immagino di essere io il flusso e mi muovo con leggerezza al ritmo della musica. Poi però mi concentro sulle parole del testo della canzone, penso al giorno prima in cui, sotto la doccia, ho cantato questa canzone a squarciagola e al fatto che mio fratello è entrato in bagno incavolato perché voleva studiare, e torno quindi nel mio letto, sento le coperte sul mio corpo e il cuscino sotto la mi testa. Sono di nuovo nella mia stanza. Ho perso tutta la concentrazione.

Ma voglio rifare questo viaggio, voglio tornare in quel posto in cui mi sentivo leggerissima e senza forma, senza alcun legame con la realtà.

Metto a fuoco solo la mia immagine e il mio letto si trasforma in una grata di metallo. Tutto il resto scompare. Il mio corpo è pesante e viene attirato dalla zona al di sotto della griglia. All’inizio i piedi vengono tagliati dal metallo e cadono giù a velocità altissima, il più veloce possibile, tirando con sé le gambe, il busto, le braccia. Queste, passate attraverso le griglia, vengono trasportate via da un fiume che passa a distanza infinita sotto alla griglia. Infinita non nel senso di lunghezza infinita, ma nel senso di lunga quanto il mio pensiero riesce ad immaginarla, quindi più immagino, più questa si allunga, senza limite. Ma anche se so cosa succede al di sotto, la mia concentrazione rimane sempre al di sopra della griglia. Qui, anche se il corpo se ne è andato, rimane la mia sagoma come fumo, senza peso, che per questo non cade. Sono la mia sagoma ora, il mio corpo non c’è più. Ma c’è il solito problema: la testa. Non riesco a farla scendere perché è troppo compatta e piena. Penso a tutto ciò che fa parte della realtà sensibile: penso al mio letto e lo faccio cadere al di sotto della griglia, penso a tutte le persone che conosco e le faccio cadere, faccio cadere le mie paure, la mia famiglia, i miei progetti per il futuro, università, lavoro estivo, il mio nome, la mia età, il linguaggio. Prendo tutto e lo espello dalla mia mente finché della testa rimangono solo la carne e le ossa. Non sento più la musica. Ora la mia mente è meno compatta e riesce a farsi tagliare dal metallo della grata. Prima taglia il mento, le labbra, arrivando alle orecchie e al naso. Poi taglia la fronte finché l’unico pezzo di materia che rimane al di sopra della griglia è la punta della testa. Appena questa cade, nel medesimo istante, la mia sagoma di fumo viene sparata in alto, come se la forza di gravità attirasse il corpo verso il basso e il pensiero libero verso l’alto. E’ una sensazione bellissima perché sono leggera e libera. Quello che ho intorno è un qualcosa di mai visto prima, è una macchia di un colore che non riesco a mettere a fuoco. La mia sagoma di fumo viene mischiata con quello che ho intorno. Devo concentrarmi bene perché voglio diventare un tutt’uno con lo spazio, ma anche se continuo a mischiarmi con esso so che rimangono differenze microscopiche tra me e ciò che mi circonda. E’ come quando si mette sotto la lente d’ingrandimento una soluzione che, anche se a occhio nudo non presenta eterogeneità, è composta da elementi diversi. Quindi non basta mescolare, devo trasformarmi in quello che ho accanto. Mi soffermo sulle parti di me che sono ancora distinguibili dal resto finché anche queste diventano dello stesso colore e della stessa consistenza dello spazio in cui sono. Ora sono tutto. Quello in cui sono e che sono è infinito delimitato: dato che tutto è uguale non si distinguono profondità e grandezza, e anche se impercepibile lo spazio è infinitamente profondo e composto da parti infinitamente piccole, ma comunque posso metterne a fuoco solo una parte delimitata, anche se il limite, se ci penso, può aumentare, e quindi non conosce fine. Come quello che diceva il filosofo Aristotele: l’infinito è tale in potenza, non in atto. Il mio corpo e il mio pensiero stanno andando a velocità altissima in direzione opposta: uno verso il basso e l’altro verso l’alto. Anche volendo, non si incontreranno mai più.

Mi addormento.

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