67. Tu nell’universo

Genere: narrativo

Apheliè si sporgeva sul bordo della nave, l’ Horizon, che sicuramente l’avrebbe ammaliata con orizzonti suggestivi. Non osava sporgere il corpo troppo oltre la ringhiera, la paura di cadere non era pura inventiva. Il suo fidanzato non riusciva o non voleva trovarla, ma a lei stava bene così. La brezza del mar Ionio era in quel momento l’unica compagnia che l’ assertiva a lasciarsi andare nella sua solitudine. Non aveva mai visitato le isole greche, eppure questo viaggio non si profilava come il più emozionante e avventuroso. Nei suoi ventisette anni si poteva dire esperta del suo piccolo mondo, la Francia, i suoi dintorni e le principali città europee. Non aveva mai avuto occasione di compiere un viaggio oltreoceano. Occasione o voglia. Ora invece quell’idea che pareva  così folle, si radicò in qualcosa di sostanziale. Iniziò a congetturare ipotesi ardite, che credeva di non poterle mai compiere.  I suoi occhi cercavano qualcosa di diverso nell’orizzonte, un cambiamento nell’aria, che però non sentiva fresco sulla pelle. Lasciò gradualmente la forte presa dalla ringhiera, in modo cauto, come se sapesse già cosa sarebbe accaduto in seguito, cosa avrebbe dovuto fare. Assaporò per l’ultima volta quella brezza marina e lasciò cadere una lacrima amara nell’abisso salato.

Quando tornò nella sua cabina non trovò il suo compagno. Decise allora di aspettarlo seduta sul letto, guardando il nulla, pensando a tutto. Lui arrivò un’ora dopo più amorevole che mai, felice, gaio, quasi come se fosse in vacanza. Quando lei annunciò la lieta novella della sua maternità, lui non cambiò affatto umore, anzi se ne rallegrò, strabuzzando gli occhi, prendendola in braccio e facendola girare. Fu solo alla fase successiva del suo irragionevole discorso che lui s’imperversò. La leggerezza nel suo volto svanì, come le bollicine attirate dalla superficie del bicchiere che lasciano in mezzo il liquido trasparente, pesante. Lei spiegò le sue ragioni,  come poteva, non amava alzare la voce, eppure zittiva tutti con lo sguardo. Quando lo guardò intensamente, i suoi occhi si seppero esprimere meglio. Sarebbe andata, con o senza il suo appoggio. La sera era già calata e l’indomani si appropinquava celermente. Tutto era già stato meditato, non era un addio, era un viaggio non più velleitario di una povera orfanella che aveva bisogno di scoprire il mondo. Solo per questo lui mostrava un po’ di riverenza nei suoi confronti.

Apheliè si sentì di andare in Texas, al confine con il Messico. Uno stato così diverso dalle gelide ventate della Bretagna, dove era nata e cresciuta con i suoi nonni. Atterrò a Houston, e per un paio di giorni si dissimulò tra la gente come una turista qualunque, ma presto l’inquinamento della grande metropoli la stufò. Non aveva attraversato l’oceano per vedere lo smog. Doveva spingersi nei luoghi ameni, tranquilli. Dopo tre giorni dal suo arrivo noleggiò una jeep e si convinse che la giusta strada l’avrebbe portata a visitare l’Enchanted Rock, verso sud-ovest, per vedere le incantate pietre di granito rosa.

Durante il viaggio ammirò estasiata gli imponenti luoghi che le regalavano un sorriso istantaneo dovuto a un’ingenua stupefazione. All’inizio non offriva passaggi agli autostoppisti, era timorosa, ma poi pensò di offrire una possibilità a chi se la sentiva, e assimilò il motto texano – amicizia – alla lettera, allargando i suoi orizzonti. Ogni giorno si convinceva che ciò che stava cercando l’avrebbe trovato all’Enchanted Rock. Era in quel luogo infatti che riponeva l’ultima speranza, pareva l’unico spazio che si ergeva su tutto il resto, che era diventato ormai nient’altro che ombra. E lei ci stava riuscendo, visualizzava già la meta, ma per una volta sapeva dove andare e non sapeva cosa aspettarsi.

Il giorno prediletto era arrivato, si intrufolò per una stradina, accostò la macchina e scese. Era impaziente di scoprire cosa avrebbe trovato, così iniziò a camminare. Tenendo gli occhi aperti, osservandosi intorno, non era la sola in quel parco nazionale, ma era l’unica da sola. Decise di scalare un monte, quello più alto e non troppo stipato, per godersi la vista. Quando finalmente arrivò su quella cima ebbe così tanta sete che stava quasi per bere l’acqua di un piccolo laghetto li vicino, un pozzo dei desideri, pensò. Il mondo non mandava più segnali, ma lei non si rassegnò scese dal monte e continuò a vagare per il parco, memorizzando panorami dipinti nel cuore. Verso il tramonto le speranze si spegnevano con il sole. Apheliè non aveva parlato con nessuno quel giorno, e tornò in macchina amareggiata.

Seguì una lunga pausa di riflessione prima di girare la chiave, questa volta guardava a tutto e pensava al nulla. Quando all’improvviso, scorse davanti a sé un uomo sulla strada, che  stava calciando furiosamente un carrello della spesa. Le nuvole si stavano ingrigendo e quando lui le passò accanto, lei dall’auto ebbe l’istinto naturale di offrirgli un passaggio. Il buon uomo accettò, si chiamava Hunter. Apheliè era più serena, finalmente qualcuno con cui parlare. Hunter non aveva fissa dimora, anche lui aveva intrapreso un viaggio, ma non gli piaceva definirlo così, lui la chiamava vita. Il carrello della spesa era diventata la sua “casa” che lo accompagnava, ma ovviamente dopo tre mesi di inappropriato utilizzo le ruote si erano consumate fin troppo. Hunter aveva la stessa età di Apheliè, così era più facile capirsi tra coetanei. Era davvero piacevole conversare con lui, si era dimenticata dei suoi problemi, si sentiva al sicuro. La sua presenza le riscaldava l’anima, finalmente in quel momento si sentiva come in sintonia con il mondo. Forse la meta che si era prefissata era una prova che lei aveva superato.

Lui le raccontò una miriade di storie sui luoghi che aveva conosciuto: dal Messico all’Argentina, e che tutti questi gli erano rimasti impressi come stati d’animo che non avrebbe dimenticato. Ora, dopo tanti anni, stava tornando a casa, dai suoi zii che vivevano in Alabama. Lui era orfano, sua madre era morta in un incidente quando aveva appena quattro anni e suo padre invece li aveva abbandonati entrambi ancora prima della sua nascita. Sua madre era francese, e dopo l’incidente sua zia e suo marito si presero cura di lui, ma si trasferirono in America, per cercare di lasciarsi indietro i brutti ricordi. Crescendo Hunter non si sentì mai a suo agio in quella casa, non era sua, e temeva che nessun altra avrebbe potuto mai esserlo. Sentiva che gli mancava una parte di sé. Gli mancava il fiato a volte pensando a quanto fosse difficile non poter colmare quella sensazione, eppure la risposta la trovava da sé. Un giorno già adulto, ma neanche così tanto, decise di intraprendere un viaggio per cercare qualcosa che gli ricordasse sua madre. Di lei sua zia non parlava quasi mai e gli era proibito persino andare in Francia, ma lui aveva trovato una piccola foto, di lei da giovane e la teneva sempre con sé.

<<è incredibile quante cose abbiamo in comune>> disse Apheliè, pensando a tutto quello che gli era capitato, e continuò: <<siamo tutte e due francesi, abbiamo la stessa età,  cercavamo qualcosa eppure non sapevamo cosa fosse, e siamo entrambi orfani>> Hunter annuì con la testa china, stava ammirando la foto di sua madre:<< sai, tu le assomigli molto>> le disse. Apheliè non ci credeva, fece una smorfia e si allungò per vederla meglio. Il mondo le crollò addosso. Guardò Hunter e poi sua madre e poi di nuovo Hunter: <<quella non può essere tua madre, perché se lo è, allora noi siamo fratelli>>. Subito aprì il cofanetto dell’auto ed estrapolò una foto di lei. Le due immagini combaciavano, era la stessa la donna. Si guardarono e commossi si abbracciarono. Due fratelli che erano stati egoisticamente separati, alla tenera di quattro anni. Avevano scombussolato il loro mondo, non avrebbero mai dovuto farlo, erano gemelli. Ognuno, d’ora in poi avrebbe sostenuto l’altro.

Harmonie si svegliò, era tutto un sogno. Ora sapeva .. e cosa scrivere.

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