72. A sangue freddo

Genere: racconto sociale

Silenzio, solo il fruscio del vento che accarezzava l’erba che ondeggiava lenta e sensuale. R. trattenne il respiro che gli si faceva grosso e pesante in petto: a sinistra, una strada sterrata e battuta dal sole, a destra, qua e là, il frignire solitario delle cicale. Davanti, un muro, fatto di lamine di metallo, oltre il muro il sogno, oltre il sogno i cactus, il deserto, le Rockies solitarie e innevate, le sterminate distese delle metropoli. E alle spalle? Alle spalle il suo passato, la sua gente, la sua cultura, i barrios e i murales di Rivera. Si tastò il polso con l’indice e il dito medio della mano destra, e sentiva il sangue correre veloce, senza esitare, pensare o guardarsi intorno, il sangue, il suo sangue, che pulsava al ritmo veloce del jazz. Una vita dietro, una vita davanti, che agognava felice e spensierata: niente polvere, niente povertà, niente nostalgia dello ieri.

Deglutì e la saliva gli impastava e gli bruciava la gola. Esitò acquattato com’era tra l’erba: no, doveva andare, non c’era tempo per avere paura. Fu allora che si alzò e chiuse gli occhi: poteva vedere il rosso che i raggi del sole facevano filtrare attraverso le palpebre diradare e farsi via via arancione, giallo, nero… come la notte, la notte afosa che copriva con il suo manto di stelle le vaste pianure. Riaprì gli occhi, doveva andare, e di corsa.

Si sistemò il magro zaino sulle spalle ossute e infiacchite dal lungo viaggio: aveva solamente qualche mappa e una borraccia vuota e partì, così, con l’orologio che segnava con le lancette addormentate mezzogiorno, fermi tutti: era rimasto davvero per tre ore, forse anche quattro, lì, accovacciato tra l’erba, nascosto alla vista dei ranger che sorvegliavano la frontiera? Non sapeva darsi una risposta, la testa gli ronzava piena di pensieri e di preouccupazioni. Ora però è davvero il momento di partire, lo starter ha dato il via, il primo violino è stato accordato, si parte.

Aggredì la strada, inghiottendo l’asfalto con passo sicuro, risoluto e a tempo di chi sa ballare al ritmo di musiche gitane, fendendo il vento che si era fatto più forte e gli scompigliava i capelli lunghi e neri. Divorò parecchio percorso con un nodo in gola e si appiattì silenzioso infine contro la barriera, da dove sentiva le voci di due guardie ridere e scherzare e vedeva la cortina di fumo delle loro sigarette levarsi alta oltre le lamiere e il filo spinato e dare l’assalto al cielo terso e acquerellato di celeste. Un altro respirò, più profondo e rumoroso questa volta e puntò con violenza il piede anfibiato sull’asfalto, uno-due, uno-due, tacco-punta, tacco-punta e proseguì al ritmo di questo valzer, improvvisando questo meraviglioso passo di danza, sfidando il sole bollente e la polvere implacabile.

E poi lo videro, un attimo di silenzio confuso. Allungò il passo, rischiò di inciampare, prese a correre, sempre più forte, la voglia di una nuova vita nei polpacci; doveva andare più veloce, superare le colline bruciate dal sole e scomparire.

 

Correva, correva, correva, non danzava più, il cuore gli si era gonfiato in petto e stava per scoppiare, gli saliva e gli scendeva su e giù per la gola riarsa per la sete, e non poteva fermarsi, contemplare il panorama, osservare, ammirare ciò che lo circondava, ciò che gli stava attorno.

“Fermo!” iniziarono a gridare le due guardie di frontiera.

“Fermati! ehi, tu, fermati!”

Per l’aria vibrò qualche colpo, sapeva di doversi fermare, almeno per riprendere fiato, ma era conscio di dover assolutamente continuare a correre. Per vivere.

Un colpo, un altro, un altro ancora, un branco di uccelli, potevano benissimo essere rondini o avvoltoi, si levò impaurito in volo; avrebbe anche lui nel suo intimo voluto essere un uccello, poter volare senza avere padroni, ma ora, in quel momento, poteva solo correre e sperare e pregare il suo dio o qualche cosa non meglio definita un po’ più in alto di aiutarlo.

L’ultimo proiettile di un revolver partì dal tamburo di latta dell’arma laccato in bianco e rosso e parforò aria e carne squarciando il cielo. R. rallentò, cadde in ginocchio; dalle reni sgorgava un mare rosso scuro tendente al nero delle more e si accasciò al suolo.

Un ranger, forse quello che aveva esploso il colpo fatale o forse quell’altro, non ha importanza, lo colpì leggero con lo stivale, lasciandolo com’era lungo disteso sulla pancia, senza il coraggio di voltarlo e di guardarlo dritto negli occhi, sbarrati per la fatica e la corsa e la strenua lotta finale contro il suo stesso corpo per restare aggrappato alla vita. Poi guardò il suo compagno, il suo occhiazzurro triste e slavato, i suoi baffi biondi folti sopra le labbra sottili e i capelli cesellati. Abbassò gli occhi a terra, tirò forte su con il naso e si accese una sigaretta. L’ultima del pacchetto.

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One thought on “72. A sangue freddo

  1. Bello. Bella l’idea, scritto anche bene (a parte qualche imperfezione ortografica e di punteggiatura…)

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