73. Al di là

Genere: monologo

Un nuovo sole penetrava con i  suoi raggi la nebbiolina uniforme e biancastra di quell’inverno pungente, destando il mio animo curioso  dal sopore di un freddo letargo. Dischiusi lentamente ma senza esitazione il portone di casa, senza farlo scricchiolare per non rischiare di interrompere il leggero sonno della nonna. Scivolai fuori trattenendo a stento un gridolìo di soddisfazione: finalmente libero. Con un balzo fui sulla bici, aprii il cancello e senza nemmeno preoccuparmi di richiuderlo mi fiondai giù per il vialetto … ero partito. Fresca aria di libertà mi spettinava i capelli mentre schizzavo e sguazzavo nelle pozzanghere, giù come un fulmine per la collina. Irrompevano  naturali, in quel barlume di primavera tanto attesa, le urla di gioia e l’eccitazione per lungo tempo assopita e ingrigita dalle giornate passate col naso incollato alla finestra a guardar cadere i fragili cristalli di neve che in un attimo scomparivano nel nero terreno. Potevo vivere finalmente, muovermi, correre, giocare, oppure semplicemente sedermi per terra e guardarmi intorno: potevo gustare il mondo che mi si apriva davanti o seguire con lo sguardo la via che percorrevo, che continuava lontana fra campi e case, si perdeva un attimo fra gli alberi e poi rispuntava, fino a finire oltre le colline o forse proseguire ancora per chissà dove. Ovunque portasse, quella strada mi stava aspettando e io fremevo dalla voglia di conoscere ciò che per mesi avevo soltanto immaginato. Era giunto il momento di staccarmi dal mio piccolo mondo per fare capolino in una realtà nuova, fatta di me, della mia bicicletta e di tutto quell’ “al di là” che mi affascinava e mi impauriva al contempo, ma che sopra ogni cosa mi attraeva ammaliandomi con l’epica voce delle sirene. Ed io non potevo far altro che rispondere al suo richiamo.

Il mio percorso proseguiva in modo alterno: rapide discese senza freni erano seguite da salite lievi o anche molto faticose che mi costringevo talvolta a scendere dalla bici per spingerla ansimando fino alla cima. Difficile schivare le buche che mi attendevano, insidiose, sul sentiero. Quando attraversavo i campi, o ero immerso nel verde del bosco, era assai raro incrociare lo sguardo umano. Ma anche quando passavo nelle piazzette di qualche villaggio incontravo solo paesani stanchi che si trascinavano per le vie, con lo sguardo basso. Pochi mi sorridevano o ricambiavano i miei saluti quando sfrecciavo davanti a loro. Leggevo tuttavia nei loro occhi, che ostentavano indifferenza  assoluta, un barlume di invidia, per il fatto che loro si sarebbero svegliati il giorno seguente, prima del sorgere del sole, per caricare sulle spalle gli attrezzi da lavoro e affrontare un giorno non diverso da tutti quelli precedenti; io invece ero lì solo di passaggio, per caso, la mia strada continuava. Non credo però che qualcuna di quelle persone, pur desiderandolo, mi avrebbe seguito. Erano contadini e sapevano fare soltanto quello. ”Non fa per me”, avranno detto di sicuro molti, non trovando il coraggio di abbandonare tutto per partire verso l’ignoto. Solamente un bel cagnone dal pelo lungo e marrone come il fango che lo ricopriva tentò di raggiungermi all’uscita del misero paese di Casalecchio, subito richiamato dal fischio seccato del suo padrone.

Ma dove stavo andando? Questa domanda mi si presentò immediata all’accorgermi che la strada proseguiva e proseguiva sempre, tutta uguale fino all’orizzonte che sembrava rimanere sempre lì davanti, inafferrabile nonostante io cercassi di avvicinarmi pedalando più velocemente. Che senso aveva il gran pedalare, il far fatica se non avevo davanti a me nient’altro che un miraggio di libertà? Cosa volevo io dal mio viaggio? Era giusta la strada che percorrevo? Ormai non mi era

possibile tentare la ricerca di una nuova via. La mia mente, assediata dai tanti dubbi, non si accorgeva intanto che la strada si faceva particolarmente ripida e difficile. Continuavo infatti a pedalare attorno a quella che doveva probabilmente essere una montagna alta ed imponente. Salivo salivo finché improvvisamente non mi bloccai, in cima. Ero vertiginosamente in alto. Da lì potevo scrutare il mondo che avevo conosciuto col mio viaggio, piccolo piccolo sotto di me. Non so dire esattamente per quanto tempo rimasi immobile di fronte a quella sublime visione: minuti, forse anche ore. Ritrovai con lo sguardo la strada che avevo seguito (linea lunga e sottile vista da lassù) e ripercorsi  il mio tragitto a ritroso: i boschi, i villaggi, le colline che quella mattina ardevo dal desiderio di superare, via via fino alla casa e mi immaginai di intravedere da lontano il cancello lasciato aperto nella frenesia. Pensai alla nonna che mi stava probabilmente cercando preoccupata per la mia sparizione e per la prima volta mi resi conto di quanto mi mancasse. Scesi dalla bici e la lasciai cadere; mi sedetti poi per terra prendendomi la testa fra le mani. Perché avevo voluto fuggire da tutto e da tutti? Per nascondermi dove? La vita di prima mi annoiava e volevo che tutto cambiasse: così sono scappato. In quel momento però, volevo quasi che tutto tornasse come prima.

Solo allora capii il vero significato del viaggio. Viaggiare non vuol dire pedalare per chilometri, neppure attraversare oceani o percorrere il cielo come fulmini, ma è prima di tutto condividere con altri il cammino smettendo di pensare egoisticamente che tutto giri solamente attorno a me. Vuol dire cominciare un sentiero a fianco di un compagno, incoraggiarlo nei momenti di difficoltà per poi essere a mia volta sostenuto nelle incertezze. Viaggiare non è andare avanti solo per il gusto di andare avanti, ma assaporare i singoli momenti, gli incontri, le fatiche, senza dare nulla per scontato. Vuol dire fermarsi, se necessario, per guardare meglio o per riprendere le forze, dal momento che non esiste nessuna gara e nessun premio per chi arriva primo. Ed io fino ad allora non lo avevo capito. La vita, saggia guida, pone davanti a noi una via, fatta di saliscendi, di imprevisti, di gioie e di dolori.  Dopodiché può scegliere di ostacolarci il passo con un nero burrone, un mare in tempesta o una montagna invalicabile. Ci accorda in questo modo la possibilità di fermarci per girarci indietro e renderci conto che ciò che più conta è in realtà il viaggio stesso con le esperienze che esso comporta, non tanto il tagliare un qualche traguardo. Infine, conclusasi una via, ci indirizza verso un’altra. In cima a quella montagna si concludeva il mio viaggio, anzi, una tappa del mio Viaggio, ma sentivo che numerose altre mi stavano aspettando. Senza perdere tempo risalii sulla bicicletta sporca e infangata per rimettermi sulla via. La via del ritorno. Non ero né arrabbiato né deluso e nemmeno troppo stanco. Mentre l’ombra della montagna si faceva lunga e minacciosa sul paesaggio sottostante cominciai la ripida discesa per non perdere gli ultimi momenti di luce. Speravo di impiegare poco tempo per tornare a casa. La nonna mi avrebbe accolto a braccia aperte.

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