Mani di fata (fuori concorso 1)

Sparito! Era riuscito a scappare, come al solito, lasciandosi alle spalle una vetrina distrutta e un commesso in lacrime, circondato da cronisti assetati di notizie da sbattere in prima pagina. Già avevano in mente il titolo per il loro scoop: “ Mani di fata colpisce ancora”.

Non era la prima volta che succedeva:  Mani di fata agiva rapidamente, sempre in luoghi diversi. La sua vita era un continuo derubare e scappare, viaggiare verso nuove città dove agire indisturbato.

Era fiero della sua “professione” e gli piaceva apparire, periodicamente, sulle pagine dei più importanti giornali con quegli strani soprannomi che lasciavano ben intendere la sua soprannaturale capacità nel far sparire tutto ciò che rubava senza lasciare alcuna traccia.

Non era un vile ladro: essere uno stregone, una fata, un maestro della complicata arte del crimine, era ciò che lo rendeva felice. La felicità, però, è un sentimento libero che vaga senza meta per i cuori degli uomini: non si può trattenere per sempre, prima o poi abbandona colui che, agognandola, è riuscito a raggiungerla.

Fu allora che, in una splendida giornata primaverile, Mani di fata scoprì il suo giorno più buio, finendo, dopo l’ennesimo furto, fra le mani dei giudici. “ Presa conoscenza dei reati commessi, condanno il qui presente Giorgio Marenzi a quattordici mesi di reclusione ”.

Quattordici mesi per una vita di furti…. Alla fine quel giudice dallo sguardo pungente si era lasciato convincere dalle dolci parole dell’avvocato difensore e l’ orgoglio criminale di Marenzi ne risultò quasi offeso. Per Mani di fata alias Giorgio Marenzi quattordici mesi in carcere rimanevano comunque un periodo di tempo estremamente lungo: abituato a viaggiare di città in città ogni settimana, non sarebbe resistito due giorni rinchiuso nella stessa cella, con gli stessi compagni, senza la minima speranza che qualcosa cambiasse se non dopo quattordici mesi di dura reclusione. Lui, che tanto aveva viaggiato, stava per compiere il suo ultimo viaggio.

“ Ecco la tua cella, Marenzi ”. Il poliziotto lo spinse freddamente in quella camera spoglia in cui i raggi solari filtravano da una triste finestra con le inferriate. Ad accoglierlo nell’ umida cella c’erano due uomini: uno, come intrappolato in un incubo, continuava a dimenarsi sulla branda su cui era rannicchiato, l’altro lo stava scrutando con occhi impassibili, come se stesse studiando il nuovo arrivato.  “Quindi”, gli disse, “ ti chiami Marenzi, eh?”. Giorgio lo guardò negli occhi, il cuore gli si era stretto in gola: “ Giorgio Marenzi era il mio vecchio nome: io mi chiamo Mani di fata!”. “ Mani di fata?! Ma che razza di nome è ? ” , non riuscì a trattenere le risate,  “che problemi c’hai col tuo nome, eh?”.

Ne aveva di problemi. Marenzi, il cognome di suo padre, il nome che aveva sempre avuto, l’aveva sempre portato con la vergogna e il ribrezzo di un uomo che non sa dimenticare, tanto meno perdonare. Era tutta colpa di suo padre se si trovava in quella situazione. Lui gli aveva rovinato la vita. Odiava il suo nome perché odiava il padre. Lo odiava e ne aveva vergogna perché aveva fatto ciò che nessun padre avrebbe fatto. “Allora? Mi vuoi dire ‘sti problemi?”. “No”. Il detenuto sorrise a quella risposta: fu un sorriso dolce, il sorriso di chi sa comprendere i sentimenti di chi gli sta davanti. “Vabbé! Tanto anche se ti facessi chiamare Trilli non cambierebbe niente. Comunque io sono Dario e quello lì che si sta dimenando come un matto nel suo letto è Arturo. Oè! Arturo!”. Lo chiamò scuotendolo un po’ e l’uomo che non aveva fatto altro che rotolarsi fra le coperte si alzò, scocciato. “Che vuoi? Non vedi che sto dormendo?” “E tu, non vedi che è arrivato uno nuovo nella nostra cella?”. Si misero a litigare: sembravano due bambini ai quali non era stato concesso il gelato. Facevano così per passare il tempo, per poter dimenticare le sbarre della cella, per dimenticare il loro presente e il loro passato.

Dario era finito dentro per aver spacciato sostanze stupefacenti, Arturo aveva tentato una rapina a mano armata e non aveva avuto neanche il tempo di dire “ fermi tutti! Questa è una rapina!” che l’avevano già sbattuto al fresco. Erano due criminali temibili che in  quella stanzetta buia dalle pareti sporche ispiravano quasi tenerezza.

Giorgio non era molto diverso da loro, anche lui era un criminale, ma aveva compiuto colpi dettagliati, perfetti nei particolari, frutto del suo fine ingegno. Aveva sempre creduto che qualsiasi uomo dedito al crimine fosse simile ai personaggi dei fumetti Diabolik e Lupin: figure di abili criminali immaginari che venivano distrutte dai criminali reali che commettevano reati per profitto, per disperazione, per potersi mantenere. Giorgio rubava per provare l’eccitante felicità di apparire sui giornali, per urlare al mondo “io esisto!” e per protestare contro i propri genitori, contro la sua dura infanzia.

Con il passare dei giorni Mani di fata iniziò così a conoscere i numerosi abitanti della città fortificata in cui sarebbe stato rinchiuso per quattordici mesi. I suoi compagni di sventura, gli altri detenuti, avevano macchiato la propria fedina penale per arricchirsi senza fatica: avevano preferito sporcarsi la coscienza piuttosto che sporcarsi le mani con il proprio sudore, dopo una giornata di duro ma onesto lavoro. Lui, però, era diverso da loro. Condivideva con loro le ore di prigionia, i momenti di semilibertà dell’ora d’aria, gioie, dolori, paure; condivideva con loro tutto, eppure era diverso da loro. Lui si era spinto oltre i confini della legalità per motivi legati al suo passato, non per pigrizia o per ignoranza. Lui, in un certo senso, si sentiva giustificato.

“ Ti sembra che qualcuno qui possa dire che se ha rapinato una banca non era colpa sua?”, gli aveva detto un giorno Dario, più serio che mai, “Vedi…se si rimane in carcere per molto tempo come me ci si accorge che per quanto convincenti possano essere le nostre motivazioni per compiere un crimine, ciò che abbiamo fatto non ha scuse: perché mai ci troveremmo qui, allora? Certo, un giudice quando ti condanna tiene conto del movente che ti ha spinto ad infrangere la legge, ma mica ti assolve! Nessuno qui può considerarsi innocente o giustificato, nemmeno tu Mani di fata. Bisogna imparare ad accettare il proprio passato, vivere il proprio presente e sperare nel futuro. Tutte cose che non ho mai fatto. Solo ora me ne pento. Alla fine ciò che conta non è perché fai, ma cosa fai.”.

Menzogne! Stupidaggini! Mani di fata non avrebbe mai accettato il suo passato: mai! E mentre la sua mente si opponeva con forza alle affermazioni di Dario, il suo cuore iniziò a scalpitare, correndo fra i suoi ricordi più bui: i ricordi che aveva sperato di avere sotterrato nei luoghi più inaccessibili del suo animo rinascevano  più forti e chiari che mai.

“Giorgio, dai, ora basta giocare: torniamo a casa!”. “Uffa! Vado sullo scivolo un’ultima volta: solo una, papà!”. I ricordi lo avevano riportato a quando era bambino, un frugoletto di sei anni attaccato ai propri genitori, soprattutto alla madre. “No, basta: torniamo a casa. Anche la mamma vuole che…” “Ma no: gioca pure ancora un po’, Giorgio”, era una donna solare che teneva al figlio più di ogni altra cosa, “Gioca ancora un po’ però poi basta, ok?”. “Sìììììììììì!”. E salendo sullo scivolo aveva aggiunto: “Sei la mamma più migliore del mondo!”. Con quella frase sgrammaticata l’aveva resa felice, anche se solo per un attimo. Era contenta e fiera di suo figlio. Ma sapeva. Lei, in cuor suo, sapeva che sarebbe successo, un giorno. Quel giorno arrivò con violenza in una notte senza nuvole e senza luna. Giorgio non riusciva a dormire: nemmeno Signor Coccolotto, il suo peluche preferito, riusciva a fargli chiudere occhio. C’erano troppi rumori provenienti dalla stanza accanto che non gli davano pace. Era la camera di mamma e papà. Li sentì parlare animatamente, forse stavano litigando: urlavano. Soprattutto papà. Sbirciando nella piccola fessura della porta della camera dei genitori, gli occhietti di Giorgio videro un’ombra grande, brutta e cattiva riversare la propria rabbia su un’altra più fragile e sofferente. Poi un silenzio improvviso, preceduto da un ultimo tonfo sordo, regnò in casa. Il giorno dopo la mamma non c’era più, al suo posto decine di poliziotti giravano per casa: erano venuti a prendere suo padre. Il piccolo Giorgio perse in una volta entrambi i genitori: vide il nome di sua madre scolpito su una lapide e il volto di suo padre dietro le sbarre di una cella. Fu affidato ad una sua lontana zia piuttosto anziana che ad ogni suo difetto o errore gli rinfacciava il fatto di essere figlio di un uomo spregevole. “Sei proprio come quel delinquente disgraziato di tuo padre!” gli diceva, come se il piccolo Giorgio non vivesse già nel rancore, come se non avesse sofferto abbastanza.

A tredici anni aveva detto basta: scappò di casa con la ferma intenzione di non vedere più la faccia rugosa della zia o di chiunque altro. Si era unito ad un gruppo di ragazzi di strada che gli avevano insegnato qualche trucchetto per compiere al meglio lo sporco lavoro del ladro. Fu l’unica vera famiglia che ebbe dopo aver perso i genitori.

Diventato abbastanza bravo nel campo dei furti, aveva lasciato la sua banda per “mettersi in proprio” viaggiando di città in città alla ricerca di nuove gioiellerie da derubare: era diventato Mani di fata.

Mani di fata! Mani di fata!” Dario lo chiamava, ma Giorgio sembrava completamente assorto nei suoi pensieri e nei suoi ricordi. Fu allora che, per la prima volta in vita sua, Mani di fata aprì il suo cuore a qualcuno, condividendo con Dario il suo passato, rimasto troppo tempo rinchiuso nella sua anima. Per la prima volta trovò qualcuno con cui confidarsi, qualcuno con cui parlare, cosa che gli risultava difficile prima, quando doveva continuamente cambiare città e albergo per sfuggire alla polizia. Per la prima volta trovò qualcuno disposto ad ascoltarlo, qualcuno disposto a farsi chiamare “amico”. Era da quando aveva sei anni che non parlava a qualcuno sperando nel suo conforto e nella sua amicizia. Aveva provato il piacere della speranza per la prima volta all’interno di una  cella grigia e spoglia, chiusa a chiave.

“Senti,” gli disse Dario una volta che Giorgio finì di raccontargli la propria storia, “però mi sembra che, alla fine, col tuo orgoglio e il tuo disprezzo verso tuo padre, sei finito proprio come lui…”. Colpito! Era bastata quella frase per scatenare in Giorgio l’inferno. Ma per quanto potesse essere furioso, Mani di fata si rese conto che il compagno di cella aveva purtroppo ragione. Lui aveva torto. Avevano sbagliato coloro che, nella sua infanzia, lo avevano giudicato come il padre; erano stati loro a indicargli una strada sbagliata, ma era stato lui ad imboccarla. Lui non era riuscito a reagire, non era riuscito a dimostrare che non era ciò che gli altri pensavano, lui aveva sbagliato. “Alla fine ciò che conta non è perché fai, ma cosa fai.” Finalmente aveva capito.

Scontati i quattordici mesi, Mani di fata poté così lasciare la propria cella, la piccola stanza in cui aveva ritrovato se stesso compiendo il primo vero viaggio della sua vita. Aveva cercato la propria identità spostandosi in continuazione di città in città e l’aveva ritrovata fermandosi. Rimanendo sempre nello stesso luogo aveva conosciuto nuove persone che gli avevano permesso di riflettere e di vivere un’esperienza che aveva cambiato la sua vita. Aveva deciso: una volta uscito di prigione si sarebbe trovato un lavoro onesto, una casa, magari una famiglia. Aveva imparato ad accettare il passato, battersi nel presente e sperare nel futuro. Aveva imparato a vivere.

“Allora addio” Dario lo salutò con un filo di commozione nella voce. Arturo, invece, ancora si dimenava nel suo letto, indifferente a ciò che stava succedendo. Chissà se anche lui avrebbe mai imparato la lezione.  “Allora addio, Mani di fata”.

Giunto sulla soglia Mani di fata si girò verso l’ amico , gli occhi gli brillavano, fieri : “Oh, non chiamarmi Mani di fata: il mio nome è Giorgio Marenzi.”

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