18. Solo parole (?)

Le parole. Le parole in negativo. Le parole per confondere gli altri, ritenuti la feccia, all’interno dello stesso gruppo sociale. Altre volte per confondere il nemico, per ingannare lo straniero, il diverso, l’insicuro. Più spesso per insultare semplicemente, senza ritegno, senza rimorsi, senza la paranoia di ricevere, in fondo, l’ostracismo da parte dei propri conoscenti. Una società malata di parole, potremmo definirla. Una babele di significati, suoni e segni così soventemente differenti, assurdi e lontani. Lontani, dopotutto. Lontani dal comprendersi, dal capirsi in modo completo e definitivo, magari nonostante le contrarie volontà, prima fra tutte la volontà irremovibile del conoscimento dell’altro.

Come fu durante il nazismo, come fu durante molti regimi totalitari, il nemico, gli oppositori politici, i diversi non conformi alla massa, creavano slang, parole in codice, fino ad arrivare a gesti non identificabili dalle tante odiate autorità. Il poter parlare lo stesso tipo di lingua, risultava impossibile. Qualcosa di non accettabile, di non concepibile, o almeno avrebbe dovuto essere tale. Una lingua dentro la lingua, parole nuove dentro parole considerate vecchie e superate.

Vi sono momenti, piccoli attimi che in parecchi casi risulterebbero insignificanti ai più, in cui l’utilizzo delle parole potrebbe essere definito “fuorviante”, forse persino dannoso. Nelle situazioni in cui si crea una forte empatia tra persone , le menti si fondono assieme, i gesti assumono più importanza, un bacio, un abbraccio, un’espressione felice, vengono colte come esperienze significative, al di là dell’uso di ogni mezzo di comunicazione tangibile. Situazioni d’amore, di festa, d’amicizia, di musica. Menti ottenebrate dalle emozioni, dai sentimenti più vivi, dalla gioia dello stare insieme. La comunicazione del corpo è però sempre più sottovalutata, nonostante la sua infinità bellezza, nonostante la sua importanza fondamentale.

Ormai, con la possibilità di interagire con gli altri, amici e non, tramite dei tecnologici schermi, abbiamo di fatto tralasciato quest’opportunità – poiché di questo si tratta – di condivisione, di arricchimento reciproco, a prescindere dal linguaggio. Comunicazione con brevi frasi, input e segnali, faccine e punti esclamativi. Certo, ciò è decisamente funzionale per rimanere con tutti, col nostro piccolo o grande mondo, ma ci ha condotto verso una mortificazione della parola che mai come al giorno d’oggi si fa chiaramente sentire. Ah, la malattia paroliera. Malattia non rilevabile, almeno dalla maggior parte dei radar presenti in circolazione. Radar come persone. Che molte a volte si alienano in loro stesse, nel loro lavoro, in interessi che dovrebbero essere secondari, ed arrivano a pronunciare solamente parole precostituite, precostruite da altri, ritenuti esempi da seguire e traguardi da raggiungere.

Babilonia, babylon, il sistema corrotto secondo la filosofia rastafariana (concepita negli anni ’50 da Marcus Garvey), ci spinge ad agire in questo modo, ci assedia, soprattutto psicologicamente, utilizzando odio e sregolatezza per rifornirci di immagini, pensieri (si pensi anche solo al concetto decisamente confutabile di “progresso”), norme da seguire con precisione, e  parole – per l’appunto – con una garanzia che dovrebbe essere scaduta da tempo. Preconfezionamento ideologico, lo definiscono alcuni, quelli che, nonostante tutte le contraddizioni, riescono perlomeno a cogliere il fenomeno, cercando e ricercando la metodologia per restarne fuori. Un altro pretesto, giustificabile o meno, per giungere nuovamente al divisionismo inevitabile dell’espressione linguistica.

Le parole. Le parole in positivo. Suoni per consentire agli altri di scavare in modo ancor più profondo – certo, bisogna essere ben disposti – all’interno dei nostri caratteri, quando la terminologia corporale non riesce più ad essere colta nella sua totalità, poiché, in fondo, siamo tutti bravi nell’indossare maschere.

Ecco allora che la pseudo-sconosciuta Anna O dell’opera freudiana riesce ad esprimersi con chiarezza e a spiegare le proprie angosce interiori, mediante la magica intuizione della terapia di parola.

Ecco allora che riusciamo a trovare una via per incanalare i sentimenti utili per consolare un amico, un’amica, il proprio partner, anche un “semplice” conoscente. Parole per gli altri. Questo dovrebbe essere considerato uno dei regali più belli, uno dei più ambiti, uno dei più spontanei, il più incredibile.

Ecco allora che nascono i romanzi. Ecco allora che scrivo questo pezzo.

Ed ecco infine che un numero non quantificabile di persone leggerà e coglierà, ovviamente alla sua maniera – altrimenti che gusto ci sarebbe? – lettere su lettere, parole su parole, concetti su concetti. Parole per alimentare ed incentivare l’immaginazione, per renderla viva, per svilupparne strumenti e potenzialità.

Sembra inconcepibile l’esistenza di un universo umano privo di libri, come descritto grottescamente ne Fahrenheit  451, senza parole stampate, senza parole che garantiscano almeno l’illusione che potrebbe esserci altro, che altro potrebbe crearsi, che ognuno di noi potrebbe liberarsi dalla schiavitù mentale con pochi semplici passi. Utopie.

Ma d’altronde le utopie vengono denominate in questo modo proprio perché si vorrebbe che rimanessero tali, irraggiungibili, intangibili. Dev’essere davvero così? Forse tendersi verso un obiettivo non definitivamente concreto e realizzabile può divenire assurdo, ma cercare di arrivarci è una sfida che per qualcuno risulta indispensabile. Non a caso questa controversa situazione è stata definita con una parola, “utopia”, interpretabile e gestibile in vari modi, a seconda del soggetto che decide di prenderla in considerazione.

Parole, parole, parole. Abbiamo ormai trovato vocaboli per ogni oggetto, per ogni persona, per ogni comportamento, per tutto. Anche se ognuno intende il significato che più lo aggrada, le parole sono state, sono, e risulteranno sempre, fondamentali, necessari alla comunicazione, immuni a tutto.

Certo, nel tempo le abbiamo viste usate anche per biechi scopi, stuprate a dir poco in molteplici casi, le abbiamo viste servire alcuni dei volti più ignobili della società umana. Ma le abbiamo poi osservate scaturire dalle labbra di donne e uomini prestigiosissimi, colti, contrari a qualsiasi forma di discriminazione linguistica, aperti allo scambio intellettuale e culturale, consci del periodo in cui stavano vivendo. Consci del fatto che probabilmente avrebbero cambiato il corso della storia dell’esistenza umana in modo palese, anche – e soprattutto – grazie al mirato utilizzo delle parole.

Parole di aggregazione, di solidarietà, di aiuto. E di dissenso. E di proposte. Sono queste le parole di cui avremmo bisogno al giorno d’oggi, di fronte a tutte le crisi che stiamo vivendo, in primis quelle di felicità e di valori, oltre che quella economica. L’individualismo non dovrebbe essere tollerato in questo momento in cui il supporto e la condivisione risultano essere sempre più necessari e più che attuabili. In cui anche una parola, una parola di conforto, potrebbe aiutare qualcuno, potrebbe ridare speranza a qualcuno. Una parola. Parola.

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