31/2016. Un’altra volta, un’altra vita

Non so nemmeno da dove cominciare, o forse lo so benissimo ma non voglio farlo, magari nella speranza di accorgermi che questo è solo un incubo. Se stringo i pugni, funzionerà, vero? E stringo, stringo più che mai finché le mani iniziano a dolorare, per poi prendermela con la coperta, quella coperta a quadrettoni colorati in cui mi sembra di percepire il suo profumo. Non posso spiegarlo, ma questo è proprio il suo, ed è qui, ancora. Vorrei scaldarmi con questa piccola parte di lui, quando invece un brivido mi travolge e il gelo mi pervade. Perché l’ho lasciato partire? Sto gridando dentro di me tra i singhiozzi, ma so benissimo che nessuno mi sentirà; anche perché, se ci fosse davvero qualcuno sopra di noi, io non sarei qui a cercare di abituarmi al fatto che lui non c’è più, ma probabilmente starei organizzando una festa per il suo ritorno, quello che non ci sarà mai. È quasi due mesi che non lo vedo, due mesi che ormai non possono far altro che divenire due anni, venti, quaranta, una vita. Per favore, ancora una volta, almeno un’ultima. Grido alle ultime possibilità, è proprio finita. Non riesco a stare qui, mi sento sbattuta qua e là da tutte quelle semplici piccolezze che mi fan tornare in mente gli attimi migliori, quelli che ognuno vorrebbe portarsi dietro per sempre. Dove siano i miei? Eccoli qui, davanti a me, sulla parete, parte di quel dolce passato che non avrà mai un futuro. Ad illuminarli sono i raggi di una luna di un novembre grigio e triste, che si fanno strada nella mia camera. La mia è la classica stanza di una sedicenne che ama leggere e ascoltare musica, personalizzata da una bacheca piena zeppa di foto, fogliettini, biglietti di pullman o treni, disegni, ciondoli, insomma, tutte quelle cianfrusaglie che non butti perché credi che in queste vivrà per sempre l’istante che ricordano. Mi alzo e vado verso la bacheca, ed è come se per un attimo la vita mi passasse davanti. Ecco Matteo, qui sorride. Stacco la foto perché lo voglio tutto per me. Sono così cauta con la fotografia, quasi avessi paura di fargli del male. Le mie dita cercano la sua pelle, ma al tatto è solo una carta un po’ più speciale: niente delle sue guance, delle sue labbra, dei suoi capelli. Ha l’aria così spensierata e felice, così tranquillo come se non gli importasse di nient’altro se non della fotografa a cui sta amorevolmente sorridendo. Ed è proprio da quei magnetici occhi verdi che traspare quell’amore che mi manca. Lo guardo: lui era davvero tutto, ed era qui, per me. Questo parlare al passato mi fa ricordare che stavolta non è una di quelle notti in cui mi alzo perché non riesco a prender sonno dopo che il pomeriggio ho fatto l’amore con lui, ma la prima delle tante di un presente rassegnato, in cui mi tormenterò per ciò che il destino aveva scritto per noi. Perché Matteo fosse in Francia? Un prestigioso stage di due mesi, una di quelle esperienze da vivere a diciassette anni che l’avrebbero poi aiutato una volta nel mondo del lavoro. Perché l’Italia ha costruito la modernità nella storia, ma ora non riesce nemmeno a dare speranze ai suoi giovani, che rimangono comunque i migliori, almeno, secondo statistiche. Ma non è l’unico grande controsenso al giorno d’oggi, se nel presente dove tutti sono liberi, uguali e fratelli, l’obiettivo è umiliare l’altro, chi con le parole, chi con le armi, perché professa una fede che noi non crediamo, non la pensa allo stesso nostro modo, ha un colore della pelle troppo scuro, troppo chiaro, troppo… Diverso. L’intolleranza è il più grande dei mali, ma almeno non prendiamoci in giro raccontando ai bambini che siamo “uguali ma diversi”: noi siamo tutti uguali, ma nessuno lo vuole ammettere davvero. E intanto, mentre ci sentiamo sempre più diversi dagli altri, c’è chi alle provocazioni reagisce con il fuoco, uccidendo innocenti, uccidendo Matteo. Si gioca con delle vite? Allora non chiamiamolo mondo contemporaneo questo. Dove il mio Matteo sia ora, io non lo so, ma la sua grafia qui dietro la foto dice che mi ama e che ci sarà sempre. I miei occhi si gonfiano a poco a poco, non so per quanto ancora riuscirò a fissare quelle due righe trattenendomi dal piangere. Sento che piano piano la vista si annebbia, eppure non voglio e non riesco a staccare gli occhi da lì; solo quando sento la mia guancia tagliata da una lacrima calda, per paura che rovini qualcosa di così prezioso, ripongo con cura la foto, come se volessi metterlo al sicuro, almeno io. Mi butto sul letto e mi trovo con gli occhi persi tra quattro pareti senza colore: è la notte, il silenzio, la solitudine. Siamo solo io e i miei pensieri quando mi accorgo che sto nervosamente stringendo e rigirandomi tra le dita la catenina che non tolgo mai, quella su cui c’è incisa una M. Penso al giorno in cui l’ho ricevuta e mi trovo al drammatico 15 settembre. Lo ricordo benissimo, perché è stata l’ultima volta in cui mi ha baciato. Quello sarebbe divenuto il bacio della mia vita, solo che né lui né io avremmo potuto saperlo. Erano le sette del mattino nel trambusto di Malpensa: ci siamo scambiati dei ciondoli, come se non dovessimo vederci più. Il nostro è stato il più inconsapevole dei gesti, dopo il quale il mio Matteo è scomparso nella folla, divenendo uno dei tanti passeggeri sul volo per Parigi. Matteo non tornerà però. Un pensiero mi fa sussultare: i suoi ultimi istanti nella paura, nella disperazione e nel terrore, mentre lo immagino egoisticamente che sussurra il mio nome e stringe quella A come se potesse sentirmi. Proprio come sto facendo io ora. Vorrei tanto che tu mi sentissi. Vorrei tanto che tu fossi qua. Ma ahimè, i miei sono stupidi e insulsi vorrei, schiacciati inesorabilmente dall’odio di menti spietate, violente e barbare. Mi dirigo allo specchio e accendo la luce: non posso credere che quel riflesso sia la mia immagine. Che fine ha fatto la ragazza che Matteo amava? Non esiste più, nemmeno lei. È distrutta, è a pezzi: gli occhi rossi, le guance bagnate e le labbra aride. Non voglio pensare a come starebbe se mi vedesse in questo stato, per cui mi caccio sotto le coperte, così che non soffra se è vero che mi guarda dall’alto. Faccio per chiudere gli occhi e mi trovo imprigionata in un flash di quel maledetto 13 novembre, in quel dannatissimo teatro, mentre urlo: “Amore, no!”. Vedo l’agitazione, sento un vociare, aumenta il tumulto, il disordine generale, si scatena il panico, solo urla, vedo il terrore, rimbombano gli spari. Ed è come se uno colpisse anche me. Istintivamente, mi rannicchio ancor di più, ma cosa faccio? Dove vuoi andare illusa? Mi hanno portato via Matteo , il mio Matteo che sarebbe dovuto tornare tra pochi giorni, il mio Matteo che non ho potuto proteggere. La verità è che ti senti estraneo e al sicuro; non riesci nemmeno lontanamente ad immaginare che un giorno qualcosa potrebbe colpire anche te. Fin quando davvero non rimanete tu e il tuo dolore, chiusi in un mondo che vi ha dolcemente intrappolato.

2 thoughts on “31/2016. Un’altra volta, un’altra vita

  1. Mi piace. Sono rimasta colpita e coinvolta emotivamente da questa tragica storia che evoca i tristi avvenimenti di Parigi del novembre scorso e, fatale coincidenza, di oggi a Bruxelles.
    Triste davvero pensare che ai giovani d’oggi, come Matteo, bravi ragazzi e pieni di speranze, si offra un futuro cosi pieno di incertezze e un’umanità cosi carica di violenza e di odio.

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