51/2016. Catene anomale

Togni Stefano, il nome del capotreno che si apprestava a cominciare il lunedì in servizio.

Come la maggior parte dei compatrioti italiani, Stefano amava e odiava il proprio lavoro, ma non era di quelli che ne aborrano la monotonia o lo stress, vantava l’abilità di gioire delle sue più microscopiche varianti e sfaccettature.

Avvertiva il viaggio quale rito catartico quotidiano, in lui l’esercizio di quella mansione era radicato al punto da trovare rasserenanti i più disparati frastuoni emessi dal convoglio ferroviario. L’esperienza degli anni non l’aveva però reso avvezzo agli schiamazzi e il trambusto passeggero, note fuori ritmo di una complessa sinfonia.

 Trattandosi di un treno alle prime luci per Milano centrale, non vi era da stupirsi di una simile affluenza; uno stuolo di giovani affollava agguerrito l’ambiente.

Stefano prese le veci di controllore e passando in rassegna i biglietti, vagone per vagone, si fermò su quello di coda, dove, guadagnandosi un momento di solitudine, eseguì un autoscatto, forzando un sorriso.

 Inaugurare ogni settimana immortalando il proprio ottimismo, ecco la promessa fatta ad Alberto.

 Uno sfavillio pervase violentemente i suoi occhi, maledetto flash, si era dimenticato di rimuoverlo, gli ci volle qualche minuto per ritornare a una visione nitida, strano; le voci dei passeggeri erano d’un tratto scomparse.

Per sincerarsi della situazione esaminò il vagone alle sue spalle, era vuoto!

Fino a qualche istante prima era affollatissimo, dove si erano cacciate tutte quelle persone?

Il treno non aveva fatto fermate, impossibile che vi fossero scese.

Stefano era sconcertato, aveva assistito a una moltitudine di stranezze in dieci anni di servizio, ma questa aveva dell’incredibile. Le bizzarrie non terminavano qui, il tachimetro registrava una velocità superiore alla soglia consentita.

Si diresse così frettolosamente allo scompartimento successivo.

Il suo corpo si arrestò allo scenario, le sinapsi faticarono a rielaborare quell’immagine; cosa ci faceva lì? Come si poteva credere alla sua presenza?

Doveva essere un’allucinazione, eppure no, eccolo proprio lì di fronte: si profilava chiaramente, senza logica alcuna, la figura di un mammut al centro della carrozza.

Il pachiderma emise un fortissimo barrito che richiamò Stefano alla realtà, si raggomitolò a terra il poveretto, sicuro di essere spacciato, ma dopo una ventina di secondi realizzò che il preistorico non sembrava intenzionato a lasciare la sua posizione.

Eppure dall’agitarsi stizzoso, palesava una rabbia furente nei suoi confronti; non poteva essere un sogno, che fosse sotto l’effetto di qualche sostanza?                                                                           Dopo aver gridato aiuto per diversi minuti, capì che doveva raggiungere la locomotiva per fermare quella follia; impensabile era infatti gettarsi da un treno a tale velocità, tergiversare d’altra parte avrebbe significato morte sicura per incidente alla stazione centrale.

I movimenti della bestia erano ostacolati dallo spazio angusto, se fosse stato in grado di superarla, non sarebbe stato possibile raggiungerlo; ma bastava una zampata per spiattellare Stefano come una sottiletta. La cosa più simile a un’arma che possedeva era una valigetta di metallo.

Si fece coraggio e tentò un movimento rapido fra i sedili del bordo sinistro della carrozza, il mammut, come lo vide varcare una certa soglia si avventò su di lui con esagerata ferocia.

Un fulmineo colpo di zanne penetrò la giacca del capotreno, mancandone il fianco di pochi centimetri e devastando completamente i finestrini dietro stanti.

Che fortuna! Il gigante peloso si era incastrato. Sfilando l’abito fra mille tremori, l’uomo riuscì a fiondarsi alla porta e a chiudersela celermente alle spalle.

Aveva appena ripreso fiato, quando il mammut si dissolse improvvisamente davanti ai suoi occhi.

Eppure le vesti strappate e i danni ingenti provocati alla fiancata del treno erano tutt’altro che fasulli, così come reale era il suo terrore innanzi quell’assurdo spettacolo.

Non aveva che da proseguire, la successiva carrozza ripropose il medesimo schema, la totalità dei passeggeri aveva sta volta fatto posto ad un maestoso pavone; non sembrava pericoloso, ma quando il signor Togni gli si approssimò, volse occhiate sprezzanti di superiorità, dispiegando le piume della coda in uno straordinario ventaglio colorato.

Stefano ne era estasiato, non ne aveva mai visto uno dal vivo, ma non era il momento per contemplare quella rarità; il volatile gli sbarrava la strada, lo superò passando rasente la parete dello scompartimento.

Il pavone non si mosse, quasi a non voler rivolgere il minimo sforzo a una così infima creatura.

 Altri animali occupavano abusivamente i vagoni seguenti.

Un tasso, in stato di palese dormiveglia, infuse quell’inerzia anche nel povero lavoratore che, vacillando un attimo sul da farsi, proseguì poi a fatica. S’imbatté allora in un mucchio di strambe capre nere, tutte intente ad accoppiarsi selvaggiamente, e in un viscido serpente color smeraldo.

Perché tutto ciò?

Quegli esseri apparivano come pezzi collocati su una scacchiera, sembravano predisposti al suo arrivo e una volta sorpassati cessavano di esistere.

Tale fu anche il caso del grazioso scoiattolo all’ennesima appendice del treno, l’animaletto differiva dagli altri per la gelosia che mostrava del proprio spazio, divenne estremamente pestifero non appena vide qualcuno avvicinarsi alle ghiande pazientemente raccolte in una pila.

Nella settima carrozza infine, un gigantesco orso bruno si ergeva con imponenza, le sue fattezze non erano affini agli esemplari della sua specie, aveva delle fauci eccessivamente voluminose con le quali azzannava voracemente i sedili circostanti.

Come superare un mostro di tale sorta?

Era come se non mangiasse da settimane, o persino da mesi.

Un primo tentativo costò a Stefano una lesione alla spalla, fortunatamente la valigetta ferrata fu morsa al posto del suo cranio. L’animale, così come gli altri, non valicava un’ipotetica linea a metà vagone, ciò diede al capotreno il tempo di riprendersi e ragionare.

Scartata l’idea di raggiungere il tetto della carrozza, vi era una sola mossa da tentare.

Avvantaggiandosi della propria corporatura minuta, il signor Togni s’infilò nel ripiano porta bagagli, andando a strisciare proprio sopra la testa dell’orso, che prese a saltare all’impazzata come un bimbo che si protende verso un nuovo giocattolo.

Il problema fu nello scendere, Stefano rotolò goffamente sulla schiena del predatore, questi gli addentò il tricipite destro proprio mentre abbandonava quella grotta tutta moderna.

Emise un verso straziante mentre l’orso svaniva dietro di lui, liberandogli l’arto lacerato.

Il tempo stringeva, si medicava il braccio quando il treno passò la fermata di Pioltello-Limito, a quella velocità lo scontro in centrale sarebbe avvenuto nel giro di una decina di minuti.

Ottavo vagone, l’ultimo precedente la locomotiva.

Il capotreno fu rasserenato dall’assenza di animali e ancor più nel veder finalmente una persona, un bambino.

Singhiozzava di spalle, aveva qualcosa di familiare.

Fece per consolarlo ma come lo voltò, rimase impietrito.

Era proprio lui, Alberto, il figlio perso due anni addietro per quell’atto di egoismo.

Incrociare il suo sguardo in lacrime spezzò il cuore di Stefano.

Egli era il volto del suo peccato.

Il tempo di divincolarsi da quelle orribili catene era ormai giunto da un pezzo, doveva spezzarle, liberarsene, riprendere a correre.

Le sue membra si rifiutavano di proseguire, quasi volessero mollare tutto così, lo scontro più arduo per Stefano iniziò in quel frangente.

Quando i secondi divengono minuti e quelli ore, un padre fece la sua scelta.

Volle la vita.

Tirò il freno traendo forza proprio da quel piccolo essere indifeso.

Come scese dal convoglio si riconobbe veramente qual era: libero.

E tanti come lui, cuori liberi, in un’Italia libera, in un mondo straordinario, altrettanto libero.

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