9. Le Maddalene di rue Beuret

Danilo insegna, ma non lo farà ancora per molto. Ha cinquantasette anni e una moglie non l’ha mai avuta.  Durante la terza ora, prima dell’intervallo, quando la campanella strimpella, e lo fa talmente forte che tutta via Cavour gira il polsino e squadra la cipolla, lui fila con il manuale di francese sotto il braccio sinistro verso l’aula insegnanti senza scrutare nessuno e dà un’occhiata al Piccolo, il quotidiano locale, ripiegato per metà sul tavolino antistante alla persiana.

Difende le classi come ultime bastie di voci vive ma s’accorge che gelide parole di propaganda hanno paralizzato i segnalibri sulla cattedra e non ci può fare nulla.

Felicienne non s’allontana mai dal soggiorno del suo decrepito e fatiscente due stelle tra Rue de Vaurigard e Rue Beuret, a Parigi. Francese non lo era sempre stata, ma le andava bene così, senza ricordarsi da quando lo era diventata. Passeggiava e da lontano si confondeva con i clochard mentre ruminava qualche strana parola dialettale al boulanger e le sue guance sciupate dalla miseria chiedevano un miracolo sotto Nôtre Dame.

Danilo da ventisette anni portava ogni tre primavere le quinte del Liceo di via Cavour a Parigi, in un viaggio che pare più un esodo: Trieste, Vicenza, Milano, Vercelli, Ginevra, Digione, Auxerre e Parigi. Poi il ritorno: Parigi, Auxerre, Digione, Ginevra, Vercelli, Milano, Vicenza e Trieste.

Non si stanca però Danilo, per gli alunni prof. Zenon. E lui sì che li ha visti cambiare gli alunni, così come ha visto cambiare via Cavour, e Trieste, e le strade che la congiungono con Parigi, sì, dalle due alle tre corsie, ai primi ristori sulle autostrade, e poi i doganieri, che biascicano un po’ di catanese, e un po’ di torinese.

Felicienne se ne sta distesa e imperturbabile come suo solito su una fatiscente poltrona mentre la luce fioca tenta di allietare il lancinante clima dello sgabuzzino. E’ lì che cerca di far tornare i conti, ma le mancano le parole giuste per farlo. Il suo albergo fa da bains douches per nove mesi l’anno, e in quel periodo se ne vedono di tutti i tipi nella hall: turisti olandesi, controllori del metrò notturno, violinisti frustrati, giocatori d’azzardo, preti, ruffiani, arroganti e pure un signore che tiene una scarpa di pelle e una di cuoio, che serve a spegnere le sigarette sul suolo mentre ne accende un’altra. Nei corridoi le diverse parlate si mescolano, e non si capisce da dove provengano le une e dove le altre, dove inizino le bestemmie di un impresario caduto in disgrazia e dove finiscano le preghiere di una cartomante musulmana.

Poi tornano nelle camere chiuse a chiave quei vaghi discorsi, i frammenti di sentenze prescritte, la dizione di un professore che s’è stancato di ripetere le sue tediose giustificazioni di fronte a uno specchio rotto per metà.

Danilo con le sue classi alloggia sempre nell’albergo di Fèlicienne, nei tre mesi in cui si lavora pure di notte.

Sembra sempre assonnato, disinteressato e apatico, più per ozio che per filosofia. In camera preferisce starsene da solo, e sebbene ci sia una gran puzza di fumo, tiene sempre la finestra chiusa come se dovesse tamponare con uno zaffo una ferita rimasta aperta, seppur piccola che sia.

La prima volta, ventisette anni fa, il professore e la direttrice si scambiavano solo qualche battuta in francese, non ridevano, ma era come se lo facessero. Danilo non parla mai il francese che insegna, solo con Felicienne, mentre con le guide, i camerieri e i mendicanti dialoga in inglese, neppure bene.

Gli piace ancora leggere, nonostante tutto; talvolta a voce alta ripete raucamente e flemmaticamente i versi che più gli piacciono, le parole così gli sembrano fuochi d’artificio che voltandosi nella stanza come danzatrici plagiabili a piedi nudi su ardenti bracieri e alla fine del saggio si adagiano sulla finestra appannandola.

Felicienne non aveva figli, il suo utero è divenuto sterile ancora prima di poter civettare tra i boìte sfollati e le cabine telefoniche.

Infeconda di passione, conosceva così ancora una volta Danilo. Le corbellerie non trovavano rifugio nello sgabuzzino, ma solo un po’ di effimero compiacere mentre fuori la pioggia scrosciava e tutte le maddalene di Rue Beuret storpiavano la loro sorte con qualche labile scusante.

Amoreggiavano con le parole che si mescevano tra loro risultando ermetiche e spinose approssimazioni di una vita stordita come un gioco lasciato a metà e silenziosamente i loro corpi paiono urlare violenti illusioni in lingue che non sono più il francese e l’italiano, ma che solo i postumi di questi momenti potranno descrivere.

Tra i vestiti dimenticati sul retro dello sgabuzzino s’intravede un segnalibro navigato, ma ancora intatto, così che le voci han lasciato le classi e prosperatosi negli anditi han riscaldato i loro ardori.

Danilo è solo, e nei tre anni tra una Parigi e l’altra si ritrova a mangiare in una limitata terrazza del suo appartamento e si dimentica d’andare ai consigli di classe.

Aspetta e sarebbe come ingannare l’affermare che la sua quotidianità si sia alterata dopo gli incontri che ogni tre primavere si ripetono tra lui e Felicienne; altrettanto lo sarebbe nel versare finte lacrime che macchiano il gillet rosso ogni qualvolta abbandona la Francia.

Questo è il suo ultimo anno che va in trasferta con le quinte.

Non ha particolari rimorsi, cerca solo di scartare ogni sentimento di passione che lo unisce a quella donna con il seno cadente e la sua cellulite rassomigliante alla stessa delle caffettiere provinciali.

Il viaggio è sempre meno lungo e gli scolari sempre più cinici. A volte vorrebbe specchiarsi con loro, ma quando lo fa si risveglia sempre.

Questa volta non alloggeranno più da Felicienne, non è stato possibile prenotare là. Ma poco gli importa, troverà comunque qualche minuto per prolungare per sempre un addio che si erano già dati dopo la loro prima immatura fuga dalla realtà.

Vuole farlo la prima sera, recarsi nella Hall e trovarla assopita nel suo sciatto portamento.

A Rue de Vaurigard le luci dei lampioni disegnano sulle cinta delle case i profili della sua prossima anzianità.

Sale le scale dell’albergo, e legge un’iscrizione. “Fermé pour deuil. Les enterrements du Madame Felicienne Dupuis se dérouleront le prochain mercredi.” (Chiuso per lutto. I funerali della signora Felicienne Dupuis si svolgeranno il prossimo Mercoledì.)

Non ho più nulla da dire. Non riesco a balbettare quelle poche sillabe che ora più che mai sarebbero dovute essere il cauto ma vitale finale di questa mia esistenza ormai finita.

Non ho più un libro di francese sotto il braccio, non ceno più sul terrazzo di casa e non rileggo più ad alta voce gli epiloghi di polverosi romanzi.  Ora son davvero solo, il crocefisso di metallo mi graffia il petto e la sento ancora qui Fèlicienne, mentre le maddalene di Rue Beuret ora pregano con i canti di chi la parola l’ha trovata, e non la vuole più perdere.

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